Monte Meron, il dramma
e la superstizione
Restare in silenzio non è la strada

“Vi sono eventi dinanzi ai quali chi detiene una responsabilità politica, morale o religiosa sente di dover intervenire”.
Così esordivo quattro anni fa su queste stesse colonne (Pagine Ebraiche, agosto 2017) commentando quanto avvenuto quel 3 giugno in Piazza San Carlo a Torino durante la diretta di un importante evento calcistico: il panico suscitato da un falso allarme produsse un morto e oltre millecinquecento feriti fra la numerosa folla. Gli amministratori sono poi stati giudicati e condannati, sindaca in testa. Ora mi duole tornare a parlarne in seguito ad un evento simile accaduto poche settimane fa, con la differenza che questa volta si è trattato di una manifestazione religiosa del popolo ebraico (cfr. ‘Avodah Zarah 31b). Mi riferisco ai 45 morti, alcuni dei quali in giovane età, durante il tradizionale pellegrinaggio al Monte Meron, vicino a Safed, la sera di Lag ba-’Omer. Molti di noi hanno reagito proponendo un velo di silenzio sulle responsabilità della tragedia. Non sono d’accordo. È vero che per morti e feriti non deve mai mancare la Tefillah: nessuno la nega, ma mi rifiuto di pensare che ciò basti.
Il potere distruttivo della calca è ben noto al Tanakh: ai tempi del Profeta Elishà’ si narra di quell’uomo che non credeva che D. potesse revocare una carestia e morì travolto dalla folla giunta in città per fare finalmente le compere (2Melakhim 7,20). La Torah ammette un certo fatalismo negli umani eventi ma ci ammonisce di non arrenderci a esso. “Quando costruirai una casa nuova farai un parapetto attorno al tuo tetto per non essere colpevole se verrà versato del sangue in casa tua qualora qualcuno, pur destinato a cadere, dovesse precipitare da esso” (Devarim 22,8 e Rashì). Se da un lato è vero che non si muove foglia in basso che D. non lo voglia in alto (Chullin 7b), è pur sacrosanto compito degli uomini vigilare che certe tragedie non si verifichino (R. Bachyè ad loc.; Sefer ha-Chinnukh, prec. 546). Per Yom Kippur ci saremmo aspettati una partecipazione corale alla ‘Avodah finalizzata all’espiazione delle trasgressioni di tutto il popolo e invece la Torah la affida interamente a un unico alto rappresentante: il Kohen Gadol, che entra nel Qòdesh ha-Qodashim da solo mentre tutti gli altri lo attendono all’esterno. Secondo un’interpretazione proprio questa fu la mancanza per cui Nadav e Avihù figli di Aharon morirono fulminati. Erano entrati a offrire l’incenso perché non si sarebbero fidati della delega al padre e volevano presenziare personalmente (Talelè Chayim).
La tradizione che situa sul Monte Meron la tomba di R. Shim’on bar Yochay cui è attribuito lo Zohar è tarda e incerta. La più recente letteratura halakhica popolare la presenta spesso in modo confuso. Un esempio per tutti riguarda fonti italiane. Riferendosi alla Hillulà (il matrimonio mistico, ovvero il trapasso) di R. Shim’on il giorno di Lag ba-’Omer, il Sefer ha-Toda’ah scrive che esso è ricordato in una lettera di R. ‘Ovadyah da Bertinoro del 1489: “il 18 Iyar… arriva gente da tutte le zone vicine e si accendono grandi falò” (Morashà, Milano, 2013, vol. 3, p. 26). Peccato che R. ‘Ovadyah parli invece dell’anniversario di Shemuel a Nabi Samwil il 28 Iyar (“Lettere dalla Terra Santa” a cura di G. Busi, Luisè, Rimini, 1991, p. 66), che è un’altra cosa. Illustri Posseqim del XIX secolo esprimono seri dubbi sull’opportunità del pellegrinaggio di Lag ba-’Omer (Chatam Sofer, Resp. Yoreh De’ah n. 233).
Non intendo qui discutere di questo argomento. È perfettamente comprensibile che anche il nostro popolo avverta il bisogno di indulgere in manifestazioni di devozione popolare. Mi limito a domandarmi se è giusto e meritorio morire per l’evento in questione. Davvero i 45 hanno diritto alla patente di martiri? Vado oltre. Trovo estremamente triste che l’ebraismo contemporaneo dia spesso l’impressione di proporre la superstizione come unica valida alternativa all’assimilazione. Non c’è una terza via? Voglio concludere pertanto con una nota differente. Fra gli usi accreditati ma non codificati di Lag ba-’Omer vi è quello di giocare con archi e frecce. Lo studioso Theodor Gaster (“Festivals of the Jewish Year”, Sloane, New York, 1953, p. 54) lo mette in relazione con la volontà di contrastare le forze del male che in primavera cercherebbero di distruggere i primi raccolti, diffusa soprattutto nella Mitteleuropa, ma la nostra tradizione ne dà una spiegazione tutta diversa. Finché R. Shim’on bar Yochay visse, si racconta, non si vide mai l’arcobaleno. I suoi meriti sarebbero stati talmente forti da contrastare la punizione Divina cui l’apparizione dell’arcobaleno allude, come nel racconto biblico del Diluvio (Bereshit 9,16),
Arco e arcobaleno si designano in ebraico con la stessa parola: qeshet. Il Talmud afferma che fin dalla Creazione D. aveva stipulato un patto che se il popolo d’Israel avesse accettato la Torah D. non avrebbe restituito il mondo al caos. Domanda il Toledot Itzchaq: come avrebbe potuto D. impegnarsi già al tempo di Noach che non avrebbe più distrutto il mondo? La parola qeshet è formata dalle tre iniziali di qarà, shanah e tanà, i verbi che designano rispettivamente lo studio della Torah scritta, della Mishnah e del Talmud. Se fra noi regnerà lo Studio, simboleggiato dal qeshet, “Io lo vedrò per ricordarmi del Patto antico”. È lo studio approfondito della Torah l’unico strumento che garantisce il futuro del popolo d’Israel.

Rav Alberto Somekh

(6 maggio 2021)