Machshevet Israel
Il peccato d’origine
Non è raro sentirsi porre la domanda se il giudaismo abbia, o no, una dottrina del peccato originale (in riferimento alla trasgressione di Adamo ed Eva narrata in Bereshit/Gn 3). La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. No, non esiste una dottrina ebraica del peccato originale, se con questo concetto si intende la credenza che la prima coppia umana abbia commesso un atto peccaminoso metafisico e metastorico che ha reso ‘lapsa’ per sempre e per tutti la natura umana, caduta in uno status di perdizione tale da poter essere salvata soltanto da un atto di redenzione altrettanto metafisico e metastorico (è l’interpretazione cristiana classica). La tradizione ebraica non pensa che gli esseri umani nascano ‘macchiati’ da un peccato d’origine, non commesso personalmente ma ereditato dai loro avi, un peccato che esige una salvazione soprannaturale operata da un messia divinizzato o da un dio incarnato (il battesimo sarebbe un memoriale di siffatta salvazione). Tuttavia i maestri di Israele non hanno mai smesso di studiare e interpretare quel capitolo della Torà e di interrogarsi sui diversi significati nascosti, per così dire, nel racconto di quella trasgressione.
Rabbi Shlomò ben Itzchaq, noto come Rashi, il più autorevole tra i commentatori ebrei medievali, esplora ad esempio la figura del serpente, animale altamente simbolico nelle culture antiche (come non ricordare l’episodio dei rettili del deserto, in Bemidbar/Nm 21,4-9, o i draghi babilonesi). Il serpente è ritratto come il più astuto degli animali, e dunque intellettualmente al di sopra degli stessi esseri umani, all’epoca ancora ignari di tutte le potenzialità positive e negative della creazione (il giardino in cui vivevano). Rashi ne fa emergere la ‘personalità’: concupisce ossia desidera unirsi alla donna; è abile nel linguaggio e sa portare argomenti convincenti e dotti (la conoscenza del bene e del male!); ha un piano di attacco, dice Rashi, per “assalire l’uomo e la donna” e forse prevede che il suo piano riuscirà… tanto è naïve l’essere umano. Con fantasia già il midrash lo aveva immaginato con i piedi, mentre discorre come un epicureo, calunniatore del Creatore e manipolatore della stessa parola divina. Ma tutto ciò, secondo i maestri, non esautora i due primi esseri umani dalla loro responsabilità, per non aver obbedito alla prima mitzwà loro affidata.
Nella Guida dei perplessi (I,2) Maimonide offre quest’altra interpretazione: nell’Eden l’essere umano viveva nel più perfetto degli stati “perché disponeva del suo pensiero e dei suoi intellegibili”, di poco inferiore a Dio stesso, disinteressato alle cose frivole e ai piaceri materiali, lontano dalla bruttezza. “Ma quando si ribellò e inclinò verso i suoi istinti suggeritigli dalla sua fantasia e verso i piaceri corporei dettatigli dai sensi [Bereshit/Gn 3,6], egli venne punito con la privazione di quella comprensione intellettuale, e per questo disobbedì all’ordine che gli era venuto dal suo intelletto e, conseguita la comprensione delle opinioni probabili [=non necessarie], si dedicò a dare giudizi sul bello e sul brutto”. Qui il serprente diviene una fantasia, uscita dalla facoltà d’immaginazione umana mossa dai cinque sensi, il grado più basso della conoscenza; il peccato non sarebbe che un cedere alla propria cattiva inclinazione, lo yetzer ra‘ dell’antropologia rabbinica. La coscienza abbandona così il livello cognitivo della verità (il vero e il falso) e si ritrova al livello percettivo dell’opinione (il bello e il brutto, il buono e il cattivo…). Tale racconto, per il Rambam, è una grande metafora che tende a spiegare come l’uomo si sia trovato “fuori dal giardino”, cacciato dalla perfezione intellettuale, punito con una pena del contrappasso: “l’essere umano aveva avuto il permesso di mangiare leccornie… ma avendo peccato di gola e avendo seguito il suo piacere e le sue fantasie, venne privato di tutto e gli toccò il più vile dei cibi… a prezzo di duro lavoro e fatica” (ivi).
Il maggior qabbalista italiano, Menachem da Recanati, attivo nella seconda metà del XIII secolo, recupera invece un’antica tradizione codificata (anche) nello Zohar, per cui quel primo peccato fu una trasgressione sessuale, l’adulterio tra la donna e il serpente, e l’albero della conoscenza alluderebbe al verbo biblico che indica il conoscere carnale. Adamo mangiò e peccò a sua volta, e per lui l’atto di mangiare equivale, secondo il qabbalista, a “tagliare la pianta”, a perdere la fede, dunque a un gesto idolatrico. Idolatria è farsi un’idea falsa di Dio, è piegare Dio alle nostre fantasie invece di riconoscere la sua immagine in noi. Anche rav Joseph Soloveitchik interpreta in tal senso il peccato dei protogenitori: “Quel che davvero la serpe voleva era distruggere la norma morale… e il peccato consiste nel credere che, per essere liberi, occorra scrollarsi di dosso ‘il giogo dei precetti’. Ecco l’inizio della tragedia cosmica dell’uomo”. Con termini che fanno eco al pensiero di Kierkegaard, rav Soloveitchik dice che si trattò di una regressione: dalla coscienza morale a un desiderio meramente estetico della vita. Pur lontani dal peccato originale elaborato da Agostino di Ippona, i maestri di Israele non hanno nel tempo tralasciato di indagare questo mito.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(13 maggio 2021)