Il cancellino

Sul cosiddetto «politicamente corretto», e su quel complesso di pratiche che sono state definite come «cancel culture», da tempo si è aperto un vero e proprio kulturkampf che, se ne può stare certi, proseguirà nei mesi e negli anni a venire. In una sorta di mischia tra tesi contrapposte e, non infrequentemente, tra reciproche scomuniche. Peraltro, non c’è accordo neanche sul ricorso a queste parole per definire i fenomeni sociali che dovrebbero richiamare. Se l’universo del politicamente corretto rimanda essenzialmente ad un disciplinamento del linguaggio, che dovrebbe acquisire non solo le prassi del rispetto ma anche e soprattutto del riconoscimento delle diversità come requisito di qualsiasi società che sia autenticamente pluralista, la cancel culture evoca piuttosto il criterio per il quale ciò che appartiene al passato, essendo adesso riletto con i nostri occhi, ovvero quelli del presente, dovrebbe essere radicalmente riformulato in base ai principi e ai valori attualmente vigenti. In altre parole, quanto oggi appare intollerabile (ad esempio il razzismo o il sessismo), se è individuato e identificato in opere e lavori trascorsi (ad esempio una statua, un libro, delle immagini che ci sono state tramandate), dovrebbe essere sottoposto non solo ad un vaglio critico ma anche ad un filtro d’accesso. Nel rispetto delle diversità si dovrebbe quindi omettere qualsiasi riferimento, nella sfera pubblica, a ciò che risulta irritante se non offensivo per un gruppo tradizionalmente bersagliato da fenomeni di stigmatizzazione, marginalizzazione e subalternità. In tale modo, il differenziale tra maggioranza e minoranze se non risulterà colmato potrebbe comunque subire una significativa riduzione d’impatto. Con l’espressione cancel culture – tuttavia – soprattutto i suoi critici identificano un pericoloso sovrappiù, che consiste nella vocazione a riscrivere radicalmente aspetti deteriori del passato, di fatto rimuovendoli dalla coscienza odierna: se una statua evoca un personaggio che ha avuto al suo attivo anche condotte riprovevoli, allora sarà bene che venga tolta. Per i medesimi critici, il rischio è che così facendo si passi molto velocemente ad una sorta di censura neanche troppo velata: qualsiasi cosa possa risultare sgradita ad una qualche componente delle nostre società, trasformatasi per la circostanza in gruppo di pressione, può ricadere sotto la falce livellatrice del rifiuto di principio e quindi dell’esposizione al pubblico ludibrio. Il margine tra inopportunità di un ricordo acritico e sua immediata mostrificazione è d’altro canto molto lieve, essendo offerto dalla capacità, o meno, di contestualizzarlo rispetto alle coordinate culturali, etiche e sociali del tempo di cui è espressione. Cogliendone quindi la relatività che lo connota: ci restituisce lo spirito di un tempo, non la nostra idea di ciò che debba rispondere a giustizia. Il pericolo, altrimenti, è di fare strame, ossia il vuoto intorno a noi, di ciò che è stato. Se non altro poiché quanto è avvenuto non è solo ciò che è trascorso cronologicamente ma anche quell’insieme di fatti, eventi, relazioni, pensieri che esistono nella nostra coscienza proprio perché segnano la differenza rispetto a quanto siamo divenuti noi tutti con il fluire del tempo. Gli interventi a posteriori sul passato, quasi che se ne potesse deviare la sua evoluzione e quindi il concreto decorso storico, cancellandone pertanto gli aspetti più sindacabili dal punto di vista dell’esposizione pubblica odierna, non sono solo espressione di un atteggiamento rimozionista (attraverso l’occultamento allo sguardo collettivo) ma anche la manifestazione, almeno in ipotesi, di una pericolosa delega di potere che singoli gruppi – non importa con quali motivazioni – possono assumersi rispetto alla logica complessiva delle istituzioni sociali. Quest’ultima, invece, per rispondere a criteri di inclusione, non può derogare dalla necessità di rigenerarsi costantemente sulla base di una discussione pubblica che non deve fondarsi sulle sole interdizioni di principio. Le quali, a loro volta, non offrono il resoconto delle trasformazioni civili e morali di una collettività; semmai dell’impossibilità di raccontarle. Il tema dell’igiene del linguaggio di senso comune è poi tanto più rilevante dal momento che esso – proprio per non offendere le sensibilità diffuse, manifestatesi apertamente in questi ultimi decenni – non può tuttavia arroccarsi in una pratica neopuritana. Le zone di interdizione linguistica (“non si può dire (ma in fondo lo si pensa)”), se sono recintate da veti e divieti, diventano ben presto aree della tentazione: il tabù funziona così, essendo non solo ciò che non può essere detto e fatto ma – soprattutto – quanto vorremmo potere dire e fare per infrangere i limite che ci è altrimenti imposto. Il divieto, se da un lato tutela, dall’altro sfida alla sua infrazione. Sul piano culturale questo aspetto è tanto più pronunciato. La coscienza civile non può maturare in base a questi standard. Ancora di più, per esistere effettivamente essa non può mai rimanere disgiunta dal legame concreto con le condotte, i comportamenti, gli atteggiamenti di ogni giorno. E qui, a ben vedere, non entra in gioco il solo galateo sociale (quanti tra i lettori si sono trovati a fare fronte a situazioni esplicitamente ipocrite, dove alla parola pronunciata, oppure omessa, corrispondeva immediatamente una condotta di segno capovolto?) ma una più diffusa, complessa e necessaria riflessione su come diseguaglianze di opportunità e trattamento, stereotipi e luoghi comuni, differenziali e processi di emarginazione siano funzionali all’asimmetrica distribuzione del potere nelle nostre società. E con esso delle risorse di cui dovremmo invece tutti beneficiare. Il neopuritanesimo vittoriano rischia di concorrere ad ottenere il risultato esattamente opposto a quello che si prefigge: non la valorizzazione delle differenze in società plurali, che tengono insieme soggettività diverse, ma l’ulteriore segmentazione del fragile diritto all’eguaglianza sostanziale attraverso la riduzione di ogni rivendicazione al potere di veto di una qualche organizzazione identitaria che si muove come una nuova tribù assolutista nello spazio e nel tempo del presente. Nel qual caso, ancora una volta, il divieto non esprimerebbe la consapevolezza raggiunta da una società ma il divario tra condotte imposte da chi al momento ha una maggiore incisività rispetto all’agenda della discussione e desideri dei tanti, che fingono di accettare ciò in cui non credono perché non sentono appartenergli, semmai capovolgendolo in obbligo di cui liberarsi quanto prima. Qualcuno, ricordando le pellicole di Paolo Villaggio (un autore ed attore sempre sospeso tra denuncia e qualunquismo) ha avuto modo di scrivere: «quello che il sommo Fantozzi sfotteva non era tanto il film [«La corazzata Kotiomkin», titolo volutamente modificato, manipolato e strapazzato rispetto all’originale di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, n.d.r.], ma quel clima puritano di gente che parlava di cose che non capiva, che era costretta a veder cose che non voleva vedere, che era costretta a dire che la corazzata era meglio di una partita quando avrebbe voluto essere non davanti alla TV, ma allo stadio direttamente. In curva, possibilmente. Questo è la boiata, quel clima di ipocrisia dove tutto è forma e niente e sostanza».

Claudio Vercelli

(16 maggio 2021)