L’omaggio di Primo Levi
agli ebrei di Libia
Il brano in cui Levi descrive il lutto degli ebrei di Tripoli e le loro preghiere funebri prima della deportazione da Fossoli è di una bellezza unica, con una grande valenza poetica e letteraria. Un brano intenso e carico di empatia verso delle famiglie trascinate dalla periferia dell’Impero, quando il regime era ancora solido, e che dopo essere passate per diversi luoghi erano stati trasferite a Fossoli per essere deportate in Germania: “Venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi”, portando “con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia”.
Dopo questo breve esordio che accompagna il lettore nel lungo viaggio che questa gente ha dovuto affrontare, l’autore ci introduce nel cuore di un’angoscia senza nome che si è abbattuta sul campo, di cui la preghiera e il pianto sconsolato delle donne attorno a delle candele funebri accese sono un’eco: “Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto: e quanto tutto fu pronto, lo focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta la notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”.
Il brano segna uno spartiacque con la descrizione successiva, in cui l’eco delle letture manzoniane giunge in aiuto allo scrittore per dare corpo ai sentimenti provati prima del viaggio verso l’inferno: “L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora ne tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case.”
David Meghnagi, psicoanalista
(16 maggio 2021)