Noi, Israele e la forza di andare avanti
Il 4 gennaio 2006 sedevo nella hall di un grande albergo di Yerushalaim, dove aveva luogo l’annuale convegno internazionale dei rabbini. Quella mattina il Primo Ministro Ariel Sharon era entrato nel coma irreversibile che lo avrebbe accompagnato fino alla morte otto anni più tardi. A pochi passi da me udii il maitre dell’hotel, un arabo israeliano in livrea verde con i gemelli ai polsini, imprecare in ebraico con parole irripetibili all’indirizzo del capo del governo. Pensai fra me e me: “Non ti vergogni di sputare nel piatto in cui mangi? Decine di camerieri qui dentro stanno ogni giorno ai tuoi ordini. Chi saresti tu oggi se non fosse stato per lui e per ciò che egli rappresenta?”.
Mi alzai, gli pagai la consumazione ma non gli lasciai neppure uno sheqel di mancia. Temo purtroppo che gli arabi comprendano solo il linguaggio della forza. Più concessioni fai loro, più alzano pericolosamente il capo, interpretandole come una debolezza dell’avversario. Triste dictu l’umanesimo dei pacifisti, ammesso che sia buona fede e non una copertura elegante dell’ignavia ebraica di molti di loro, resta un wishful thinking. La domanda è semmai che tipo di forza adoperare. Sono almeno altrettanto persuaso che l’emergenza militare che Israele sta vivendo in questi giorni, al di là del casus belli, sia in parte la conseguenza di una profonda crisi interna della compagine dello Stato ebraico, il nostro stato. È difficile non mettere in relazione gli incidenti di Lod e altre località, dove i protagonisti sono stati loro, gli arabi israeliani che credevamo integrati, con l’ipotesi ventilata nelle ultime settimane di rendere i loro partiti partecipi di una coalizione pur di salvare un quadro politico che quattro tornate elettorali in due anni non sono riuscite a puntellare. Si era pronti a un passo epocale, in contrasto con gli ideali che i padri del sionismo ci hanno da sempre insegnato, pur di tutelare a oltranza degli interessi che poco o nulla potrebbero coincidere con quelli della nazione.
La spada non rappresenta l’ideale ebraico: è la forza dei nostri nemici (Bereshit 27,40). La forza di Israel sta piuttosto “nella sua bocca” (Rashì a Bemidbar 22,4). Cosa ciò implica? Nell’incontro che Itzchaq ebbe con Ya’aqov prima di morire disse: “la voce è la voce di Ya’aqov, mentre le mani sono le mani di Esaù” (Bereshit 27,22). Lasciamo dunque agli altri “venire alle mani”, strumento di violenza, e concentriamoci sulla voce, che è la nostra specialità. La parola qol in ebraico ha anche un altro significato. Qol designa il voto elettorale. Affermare che ha-qol qol Ya’aqov vuol dire asserire che la forza di Israel deve trovare espressione in un governo che sia democraticamente eletto e autorevole espressione della nazione nello stesso tempo. Solo così “i popoli vedranno che il Nome di H. è proclamato su di te e ti rispetteranno” (Devarim 28,10). Non voglio esprimere qui alcuna preferenza per un leader, per un partito o per un sistema elettorale. Recuperare l’unione perduta del popolo d’Israel significa oggi anzitutto trovare al più presto una soluzione politica stabile e condivisa che, in quanto espressione legittima della volontà popolare, rappresenti tutti.
L’opinione pubblica internazionale è il secondo aspetto di un problema vecchio come il mondo. Ancora una volta ci siamo illusi di trovar comprensione fra le nazioni. Non è possibile, perché non solo di questione politica si tratta, bensì anche teologica. L’uomo occidentale secolarizzato rifugge da questo tipo di considerazioni per due motivi collegati fra loro. Ritiene l’approccio religioso non più aggiornato, tipico di tempi andati e nello stesso tempo ne teme le conseguenze: a differenza della politica, che regala l’illusione di poter discutere tutto, la religione porta ad asseverazioni assolute, irrevocabili. Sia per il cristianesimo che per l’Islam la ricostituzione di uno Stato ebraico nella Terra dei nostri Padri è un’aberrazione teologica. Ricordiamolo! Un problema dei soli credenti? No. Per dirla nel linguaggio di Karl Gustav Jung l’antisemitismo è un archetipo che permane nell’inconscio collettivo di centinaia di milioni di persone, praticanti o miscredenti, simpatiche o antipatiche che siano. Si può indorare la pillola, mai eliminarla. È quanto i Maestri ci hanno voluto insegnare con l’affermazione: “Per la halakhah è noto che Esaù odia Ya’aqov” (Rashì a Bereshit 33,4). Come la halakhah non si presta a cambiamenti, così questa situazione per taluni aspetti di fondo non è mai destinata a essere superata radicalmente!
Una volta riconosciuta la realtà per ciò che è proseguiamo pure il dialogo. Dobbiamo evitare che l’inconscio dei popoli tracimi nel conscio con tracotanza. Non interrompiamo gli sforzi diplomatici! A condizione di accettarli solo come metodo e non come sistema, nel senso cartesiano dei termini. Prendiamo il buono che ci viene di volta in volta offerto. Lo stesso Ya’aqov si preparò ad affrontare il fratello in tre modi: gli inviò donativi, rivolse una preghiera all’Altissimo e, perché no, non escluse neppure l’eventualità di una guerra (Rashì a Bereshit 32,9). Ma ricordiamoci nello stesso tempo dell’ammonimento dei nostri antichi Profeti. Israel deve trovare in se stesso e nel suo D. la forza di andare avanti, non nelle alleanze terrene. Quelle sono legate a interessi, passano e vanno. Solo la Torah rimane. E con essa l’essenza e la coscienza di Israel, che sono eterne. Confidiamo fermamente nel fatto che presto anche questa emergenza sarà solo un terribile ricordo. Amèn.
Rav Alberto Moshe Somekh
(19 maggio 2021)