Periscopio
Levi e l’inferno dantesco

Abbiamo accennato, la scorsa settimana, all’importanza del linguaggio e della poesia di Dante come strumento di interpretazione dell’indicibile orrore della Shoah. C’è una pagina, del libro di memorie Se questo è un uomo, di Primo Levi, che fornisce, al riguardo, una testimonianza di straordinaria potenza, e che entra a pieno titolo, a mio avviso, nel ristretto novero delle più nobili ed eroiche dimostrazioni della capacità dell’uomo di difendere, anche nel più profondo degli abissi, il senso della propria umanità. Come una candela accesa, la si può spegnere, certo, ed è molto facile farlo. Ma non la si può trasformare, fintanto che resterà accesa, in qualcos’altro. Finché brillerà, resterà una fiamma, una luce. Potrà essere spenta, ed essere così sopraffatta dal buio, ma non la si vedrà mai irradiare oscurità.
Levi ha spiegato in modo mirabile come l’abominio nazista sia consistito innanzitutto nella negazione della parola. Ai prigionieri gli aguzzini non parlavano, ma urlavano ordini in lingue a loro incomprensibili, e ci si doveva sforzare per cercare, in qualche modo, di decifrare i significati nascosti di quei gridi bestiali, atti non solo a incutere terrore, ma soprattutto a ricordare che ci si trovava in un mondo ove il linguaggio, così come ogni traccia di comunicazione, erano banditi. Chi ci riusciva, aveva qualche possibilità in più di vivere ancora una o due settimane, magari, se era fortunato (anzi, sfortunato), uno o due mesi. Chi non ne era capace, aveva un destino segnato. Pochi giorni, o poche ore.
La parola era un’Atlantide inabissata, un ricordo arcano. La memoria remotissima di un possibile rapporto tra un significante e un significato, in quel regno della morte in cui ogni spiegazione, ogni senso, ogni logica erano banditi per sempre, o si presentavano col ghigno satanico di un macabro teatro dell’assurdo. Come è stato detto, Auschwitz fu il luogo della “morte del logos”, dell’inabissamento della parola, della scomparsa di ogni senso. “Hier ist kein Warum”, “qui non esiste un ‘perché’”. Ma, in questo deserto di insensatezza, nella torre di Babele in cui non si udiva altro che latrati di cani, urla di aguzzini, rantoli di moribondi, crepitio di fiamme, Levi non si arrese. Continuò, sempre, a sperare che la parola lo potesse salvare. E non nel senso di salvare semplicemente la sua vita – non ebbe paura di morire, si aspettava che sarebbe accaduto -, ma per permettere di realizzare quello che riteneva essere un suo imperativo ineludibile, una sua missione irrinunciabile: doveva sopravvivere perché doveva raccontare, i ‘salvati’ avevano il sacro dovere di raccogliere e trasmettere la testimonianza dei ‘sommersi’, di coloro che erano stati pietrificati dallo sguardo della Gorgone.
Di qui il racconto dell’atroce vicenda di Hurbinek (raccontata ne La tregua), il bambino nato e morto ad Auschwitz, senza mai avere visto, in vita sua, un albero, che lasciò come testamento un suono indecifrabile, una parola incomprensibile, che continuò a balbettare fino all’ultimo respiro, con occhi febbrili, che parevano ordinare ai presenti di raccogliere quel suono senza senso, per trasmetterlo al mondo dei viventi. Una parola senza significato, ma in cui Levi vede sigillato un messaggio potente e urgente, che raccoglie in ubbidienza a quello che gli appare un inderogabile imperativo morale, come una sacra, misteriosa reliquia, da consegnare a noi e alle future generazioni.
E di qui, anche, l’incredibile racconto, altrettanto eterno, inciso nelle pagine del capitolo di Se questo è un uomo intitolato Il canto di Ulisse. Una narrazione in cui Primo, nell’inferno di Auschwitz, si trova, in una circostanza particolare, a calarsi nell’Inferno della Commedia, eleggendo Dante a sua guida. Un Maestro che, diversamente da Virgilio e da Beatrice, non lo condurrà “a rivedere le stelle”, ma, ciò nondimeno, sembrerà tuttavia offrirgli una sorta di appiglio, di segnale, un filo di Arianna atto non già a ritrovare un’uscita (non c’era uscita, ad Auschwitz, all’infuori dei camini), ma a ritrovare, almeno, la forza della parola, del significato. E, con essa, la capacità di essere ancora, nonostante tutto, uomini.
Era possibile restare uomini, ad Auschwitz? In questa domanda si cela il senso della testimonianza, dell’intera vita – e della tragica morte – di Primo Levi. Può essere l’uomo completamente svuotato di ogni traccia della sua umanità, ridotto a un mero ammasso di misera carne, a un mucchietto di ossa, a poveri grumi di sangue e di umori? Perché, se ciò è possibile, la partita è persa, per sempre. Primo Levi cerca così, in un modo disperato, qualcuno che gli possa fare intravedere, nonostante tutto, un barlume di speranza, una – sia pur lontanissima – salvezza.
Non sappiano se l’abbia trovato, ma sappiamo che l’ha cercato. E che gli è parso di incontrarlo, in un certo momento. Esattamente, in due persone, le uniche che sembravano potergli offrire un appiglio, uno spiraglio di luce. Uno fu il suo compagno di prigionia Jean, detto Pikolo in quanto il più giovane della baracca e, in quanto tale, addetto alle pulizie. L’altro, Dante.
Su quale forma abbia assunto questo tentativo di salvataggio, da un naufragio senza scampo, dirò qualcosa mercoledì prossimo.

Francesco Lucrezi