L’intervista ad Ahmad Rafat
“Zarif tra Roma e Vaticano:
l’offerta iraniana è un ricatto”
“Quella dell’Iran è un’offerta chiara, ma sarebbe meglio definirla un ricatto. Ai Paesi europei non coinvolti direttamente nel negoziato sul nucleare, ma cui riconosce un’influenza, propone questo: aiutateci nel far pressione su Biden affinché cancelli il maggior numero possibile di sanzioni e noi in cambio faremo smettere gli attacchi di Hamas su Israele. La visita di Zarif a Roma la vedo così. Più difficile da interpretare l’incontro con Bergoglio. Probabilmente una copertura per il vero obiettivo di giornata: un colloquio riservato con l’ex segretario di Stato Usa John Kerry, attuale inviato di Biden per il clima, che guarda caso era in Vaticano anche lui. Tra i due corre da tempo buon sangue. Un legame storico e, come noto, anche piuttosto discusso”.
Giornalista, intellettuale, attivista per i diritti umani, Ahmad Rafat è una delle voci più autorevoli del dissenso iraniano. Tra qualche giorno festeggerà 70 anni. Oltre due terzi della sua vita li ha trascorsi lontano dal Paese d’origine. Presupposti per un ritorno, al momento, non ce ne sono.
“La visita di Zarif – prosegue nella sua analisi – è una sorta di addio. Tra poche settimane l’Iran tornerà al voto. Con Rohani fuori dai giochi per via del limite di mandati consecutivi raggiunto, le possibilità che venga ricandidato sono pochissime. Molto vicine allo zero”.
L’obiettivo, prima di lasciare la scena ad altri, è il colpo grosso: l’allentamento della pressione su un Paese che Rohani e i suoi sodali hanno portato, a un livello economico e sociale, a un passo dal baratro. “Le sanzioni sono un totale di 1600. Biden è disposto a toglierne 1050. La partita si gioca sulle altre 550, le più delicate. Si parla di terrorismo e in gioco ci sono importanti entità nazionali. A partire – sottolinea Rafat – dalla banca centrale”.
La strada sembra pertanto in salita. Da qui la scelta di “usare” il conflitto tra Israele e i terroristi di Hamas, sponsorizzati in primis proprio dall’Iran, per scardinare le resistenze dell’Occidente. Non il primo né l’ultimo tentativo che sarà operato in questo senso. “In una recente intervista – spiega Rafat – il ministro ha fatto capire come stanno le cose: il governo non conta, non ha particolari margini di manovra. Si limita ad eseguire quel che decide l’ayatollah Khamenei. La vera autorità. E tale continuerà ad essere a prescindere dall’esito del voto”.
Le previsioni lasciano comunque intendere una facile vittoria dei “conservatori”, accreditati di un maggior numero di consensi rispetto agli autoproclamatisi “riformisti”. Due facce, in ogni caso, della stessa medaglia. “L’ayatollah, come sempre, continuerà a dettare la linea. Anche se per la prima volta assisteremo a uno scenario nuovo, e non certo promettente, con i conservatori in controllo di tutti e tre i poteri: Parlamento, governo, sistema giudiziario”.
Molto bassa l’affluenza prevista: un sondaggio ufficiale indica il 48% degli aventi diritto al seggio, uno indipendente ne prevede circa la metà. “Emerge comunque una verità inconfutabile: l’iraniano medio – osserva Rafat – è sempre più sfiduciato”.
A spingerlo verso il disimpegno “una situazione economica che, anche per effetto delle sanzioni, si è fatta disastrosa”. E inoltre il ricordo delle terribili repressioni del 2019: “Secondo Reuters, parliamo di circa 1500 vittime in appena tre giorni; senza dimenticare le numerose condanne a morte inflitte: alcune eseguite, altre in attesa”.
Il futuro, con queste premesse, resta quindi a tinte fosche: “Ricevo ogni settimana dalle 10 alle 15 richieste d’aiuto: molti iraniani non hanno altro obiettivo che la fuga. E pur di andarsene sono disposti ad accettare qualunque lavoro. So di ingegneri che fanno i lavapiatti, ma preferiscono questa vita a quella precedente. Lasciarsi alle spalle l’incubo è la loro unica meta”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(Nell’immagine il ministro degli Esteri iraniano Zarif con il suo omologo italiano Di Maio)
(19 maggio 2021)