Il problema degli arabi israeliani

C’è la storia e c’è la cronaca. La storia ci dice che la causa prima di ciò che sta accadendo risiede nella ininterrotta campagna d’odio che la leadership palestinese conduce da un secolo a questa parte, dall’indomani cioè della Conferenza di Sanremo che sancì internazionalmente che sul territorio del mandato britannico della Palestina doveva nascere il “focolare ebraico” promesso dalla dichiarazione Balfour, nel rispetto delle altre etnie presenti nel territorio. Da lì a poco la leadership palestinese fu assunta da Amin al-Husseini, l’amico e alleato di Hitler, e da allora la campagna d’odio, nel variare delle leadership, non si è mai interrotta. Una campagna d’odio che non poteva che dare i suoi frutti, una campagna che si basa, tra l’altro, su un presupposto ideologico presente nello statuto di Hamas e cioè che gli ebrei costituirebbero una religione, non un popolo, e quindi non hanno diritto a uno Stato ma, al più, possono vivere come minoranza religiosa all’interno di uno Stato islamico.
Poi c’è la cronaca, che non può essere trascurata perché è dal suo accumularsi che si forma la storia. In questo caso la cronaca non è fatta soltanto di alcuni recenti episodi ma deve essere in grado di cogliere alcune costanti, alcune linee di frattura che hanno caratterizzato lo Stato d’Israele fin dal suo sorgere. Alcune di queste linee d frattura – economiche, sociali, politiche, etniche – non hanno impedito al popolo israeliano di sviluppare un forte senso di identità che si è andato rafforzando con il trascorrere del tempo e con l’allontanarsi delle originarie identità europee, mediorientali e nordafricane. Ma una di queste linee di frattura è rimasta sullo sfondo anche quando sembrava che i suoi effetti si fossero attenuati ed è riemersa drammaticamente in questi giorni.
L’identità degli arabi israeliani è sempre stata problematica, stretta come è tra i vantaggi dell’appartenenza a un Paese che ha nel tempo visto crescere il suo benessere e la sua capacità di attrattiva e il richiamo a un’appartenenza etnica, più che religiosa, alimentata dalla persistente presenza di un riferimento che veniva dal di fuori dei confini dello Stato.
Oggi il compito fondamentale della leadership israeliana – qualunque essa sia – è quello di ricomporre una convivenza che si è fortemente incrinata. Si può capire che in questo momento il compito più urgente è quello di difendersi dai missili di Hamas. Ma da subito occorre porre mano a un progetto di ricomposizione nei rapporti con gli arabi israeliani. Questo progetto deve necessariamente passare dal riconoscimento dell’esistenza di una leadership arabo-israeliana e anzi nella sua valorizzazione, una leadership formata dai due partiti arabi presenti nella Knesset e in particolare da Ra’am che prima dell’attuale crisi stava trattando per entrare in una maggioranza di governo.
È chiaro che questo tentativo di ricomposizione non può ignorare una serie di episodi che sono stati il deterrente della crisi anche se non la loro causa più profonda. Sarebbe un segnale di rilevante importanza se venisse offerto ai due partiti arabi di far parte di una commissione d’inchiesta su una serie di episodi che hanno preceduto la crisi, dalla vicenda delle case di Sheikh Jarrah agli episodi di violenza a danno di cittadini di etnia araba che hanno visto protagonisti gruppi di estremisti ebrei, senza escludere il comportamento delle forze di sicurezza alla Porta di Damasco e negli scontri sul Monte del Tempio. La creazione di una commissione di inchiesta su tutti questi episodi non sarebbe un segno di debolezza ma al contrario dimostrerebbe agli arabi israeliani che la loro rappresentanza politica non è una finzione ma una realtà operante.

Valentino Baldacci

(20 maggio 2021)