Curare le parole malate per curare il pensiero
Se non fosse per le implicazioni per la tragica situazione in cui versa l’intero Vicino Oriente e per le implicazioni di una logica perversa, verrebbe da ridere amaramente di fronte al modo in cui la stampa e i media hanno indirettamente contribuito ad alimentare in queste due settimane una falsa narrazione del conflitto mediorientale che si trascina da decenni e che ha ben ha poco a che vedere con la necessità e l’utilità per israeliani e palestinesi di un accordo politico che dischiuda nuovi orizzonti per l’intera Regione. Ma questo è un altro discorso che come minimo richiede un’etica dell’informazione e una cura delle parole malate che sembra essere l’ultima delle preoccupazioni della cultura dell’intrattenimento televisivo.
Lo statuto di Hamas parla chiaro: Israele dovrebbe essere distrutto per fare posto a uno Stato islamico fondato sulla Sh’aria. In questa logica gli accordi e gli armistizi sono solo una hudna coranica per prepararsi meglio dopo. L’articolo 22 dello statuto si richiama apertamente al falso dei Protocolli dei Savi di Sion, facendo propria una narrazione antisemita dell’intera storia del Novecento. Hamas è una versione specifica e palestinese dell’ideologia della Fratellanza mussulmana con cui ha in comune una particolare visione del mondo, che ha tra i suoi ingredienti l’antisemitismo e l’odio contro la democrazia e il modo di vivere occidentale. Se non si parte da questa considerazione, si comprende poco del ginepraio mediorientale e delle sue molteplici sfaccettature.
L’Iran era un tempo alleato con Israele. Insieme alla Turchia e all’Etiopia costituivano un baluardo contro l’espansionismo sovietico. Il cambiamento è intervenuto dopo la rivoluzione islamica sciita, che ha fatto della Palestina uno strumento micidiale di mobilitazione del mondo islamico che mette a rischio la stabilità dei regimi arabi. Il vuoto di potere creatosi con il crollo del regime sovietico, è stato occupato in parte dalla mezza luna sciita, che lambisce ormai il territorio israeliano. Sullo sfondo di questo vuoto si è affacciata la Cina con i suoi progetti di espansione imperiale. Mentre la Turchia neo ottomana preme sul Mediterraneo.
Tutti questi elementi si intrecciano con il doloroso contenzioso israeliano e palestinese, ma non hanno nulla a che vedere con una sua possibile composizione. Ne sono anzi la negazione. Come in passato israeliani e palestinesi sono dentro una morsa, le cui leve non stanno interamente nelle loro mani. Prima c’era la guerra fredda fra l’Alleanza atlantica da un lato, e il Patto di Varsavia dall’altro alleato con i movimenti del Terzo mondo e con le dittature di ispirazione panaraba. Oggi vi è il pericoloso affacciarsi sulla scena mediterranea della Cina che ha ripreso i rapporti con la Russia, ed ha buoni rapporti con il regime teocratico iraniano e quello turco neo ottomano.
È doloroso a dirsi. Se gli Stati arabi avessero accettato il voto di spartizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, forse la storia avrebbe potuto prendere una piega diversa. Nel giorno in cui si festeggia la nascita di Israele, avrebbero potuto far festa anche i palestinesi. Con la loro politica verso le minoranze ebraiche, gli Stati arabi hanno fornito – sempre che ce ne fosse stato bisogno – un’ulteriore legittimazione all’esistenza di Israele. I profughi ci furono da entrambe le parti con una differenza. Nel caso degli ebrei nei Paesi arabi, si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano una componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo, di cui hanno dolorosamente pagato le spese. Gli abitati ebraici caduti in mano agli eserciti arabi vennero cancellati, le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All’interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case. Avere considerato l’esistenza di Israele un’onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un’immaturità politica, l’origine di un fallimento storico che di fronte all’offensiva della mezza luna sciita e il ritorno in scena della Turchia neo ottomana mette in pericolo Israele e la stabilità dei Paesi arabi della regione.
La questione dei profughi poteva essere vista all’indomani della guerra del ’48-‘49 come uno dei tanti dolorosi scambi fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come è accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, per le popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli indù e i musulmani al momento dell’indipendenza del Pakistan e dell’India. O per l’Italia coi profughi dall’Istria trasformati per decenni in fantasmi privati di uno spazio condiviso per il dolore.
Dopo la fuga degli ebrei dal mondo arabo è cominciata l’agonia di ciò che era rimasto della civiltà cristiana di Oriente. Sparite le differenze locali, le immagini negative dei «popoli vinti» e dominati dall’Islam sono state proiettate su Israele. In un delirio crescente Israele è diventato il simbolo dei mali che opprimono la civiltà araba e islamica. In seguito la violenza è esplosa nel cuore dell’umma, con centinaia di migliaia di vittime innocenti che in Occidente non fanno notizia: sono arabi e mussulmani che uccidono altri arabi e mussulmani. Un silenzio che dovrebbe fare riflettere, sulle dinamiche inconsce più profonde di cui si alimenta il dibattito in Occidente.
Le comunità ebraiche del mondo arabo e islamico sono oggi un flebile ricordo. Eppure non molto tempo fa erano un elemento costitutivo della realtà e hanno dato significativi contributi in ogni campo. Le antiche sinagoghe sono state distrutte o trasformate in moschee. I cimiteri divelti hanno fatto spazio alle nuove costruzioni. A Gerusalemme nei due decenni di dominio giordano, le pietre e i marmi delle tombe dell’antico cimitero ebraico del Monte degli Ulivi, furono utilizzate in aperto sfregio per il manto stradale della città vecchia.
Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A vincere nelle guerre che hanno scandito periodicamente la storia della regione non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà dei soldati che travolsero le armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno 1967 era composta dai figli delle mellah e delle hara, gente disprezzata e considerata “inadatta” alla guerra che, nella visione che ne aveva l’Islam, poteva tutt’al più aspirare a essere “protetta” in cambio di un atto di sottomissione.
Non essere riusciti a “risolvere” il problema israeliano coi «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant’anni prima, la nascita di Israele è diventata la fonte di un’infelicità permanente, che nel delirio ideologico, religioso e politico ha trasformato i crimini mancati in “olocausti subiti”. Fin quando fu possibile spiegare l’umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l’aggressione congiunta israeliana e anglo-francese, l’autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più sopportabile, l’onore arabo e rinnovato dalla promessa che in futuro le cose sarebbero andate diversamente.
Quando alla prova dei fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l’incarnazione del male. Il declino dei regimi nazionalisti arabi fu in ritardata dal sostegno massiccio profuso dall’Unione Sovietica nel rimettere in piedi l’esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l’Egitto riconquistò «l’onore perduto».
La crisi del nazionalismo panarabo spianava la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l’Occidente cristiano e l’Islam politico, con Israele nel ruolo di “Stato crociato” e di “piccolo Satana” al servizio del “grande Satana”. Nella logica islamista la jihad dei palestinesi “non riguarda solo i palestinesi ma tutto l’Islam”. “L’onta della Naqba”, un’idea che nel mondo arabo si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, è l’episodio di una sequenza più ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica.
Nelle intenzioni di Peres e Rabin, che pagò con la vita per questo, gli accordi di Oslo puntavano a evitare i rischi di una deriva senza ritorno per l’intera Regione. Approfittando di una congiuntura favorevole unica, lavorando contro il tempo, prima che fosse tardi. E’ andata come andata, tragicamente.
Le occasioni storiche purtroppo non si ripetono facilmente. Quel che possiamo fare oggi in uno scenario pieno di incognite e pericoli, è di tenere aperte le frontiere dello spirito, mantenendo aperto qualunque spiraglio di dialogo, senza concessioni a retoriche false o strumentali, curando le parole malate come si curano le persone.
Se i confini dello spirito restano aperti – in taluni casi può essere necessario per conservare l’integrità psichica contro le follie del mondo – la capacità di immaginare un futuro possibile di convivenza, unita alla speranza per un futuro diverso per tutti, non sarà perduta.
Israele è oggi una democrazia in cui l’antico e il nuovo sono in una forte tensione. Che si condivida o meno la politica dei governi che si sono succeduti nei decenni, Israele è l’unico Stato della Regione in cui ebrei e arabi vivono insieme. Un modello di convivenza con tante contraddizioni, che non si possono adeguatamente affrontare e superare in mancanza di un accordo di pace con i vicini, e che rischia oggi di andare in frantumi. Sarebbe una tragedia nella tragedia ed è quello che vorrebbe Hamas ed è ciò che vorrebbe l’Iran con l’obiettivo di trasformare un contenzioso politico, da affrontare politicamente tra popoli che hanno bisogno l’uno dell’altro, in una guerra di religione totale. “La vita e la morte” si legge nei Proverbi, “sono affidate alla lingua”. Esserne consapevoli, curare le parole “malate” come si curano le persone, aiutando a mantenere aperti i confini dello spirito, è il minimo che si possa richiedere a chi fa informazione, per restare all’altezza del ripetuto e angoscioso richiamo di Popper nei suoi ultimi anni di vita.
David Meghnagi, psicoanalista