Il nuovo libro di Alberto Cavaglion
La Memoria da decontaminare

“Non è forse scoccata l’ora di accantonare progetti di musei obsoleti, stanchi discorsi sulla Memoria: una parola portata ormai al livello più basso della disaffezione, a tal punto da produrre effetti indesiderati? Non è forse giunta l’ora di ripensare alla natura del viaggio e dei treni della Memoria?”.
Sono alcune delle domande che si pone Alberto Cavaglion, storico e studioso di ebraismo in Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, saggio appena pubblicato da Add editore. Dedicata alla memoria della storica Anna Bravo, scomparsa a fine 2019, la riflessione parte da tre luoghi visitati in rapida successione poco prima dello scoppio della pandemia: il campo di concentramento di Fossoli, Villa Emma a Nonantola, dove trovarono asilo decine di bambini in fuga dai tedeschi e la torre della Ghirlandina di Modena, da cui l’editore Angelo Fortunato Formiggini si gettò all’indomani dell’emanazione delle leggi razziste. “Strade che non si possono percorrere senza riflettere sulle ferite recenti che hanno dovuto sopportare, sulle malattie di cui hanno sofferto. Potremmo definirli paesaggi convalescenti”. Non “contaminati”, con Pollack, convalescenti. E, ancora, “Ci è stato ripetuto che il paesaggio è il grande malato, preda di speculatori. (…) Giusto, ma la Storia non ha inferto danni altrettanto irreparabili?”. Non solo il paesaggio è degradato, ma anche la memoria del nostro recente passato: “La discussione sul suo futuro, sul futuro dei memoriali, dei musei del fascismo, della Resistenza e della Shoah, l’analisi delle buone (e cattive) pratiche scolastiche per il Giorno della Memoria mi sembrano giunte a un punto morto. Ogni anno, con l’approssimarsi del 27 gennaio o del 25 aprile, abbiamo modo di rendercene conto. Da molto tempo il dibattito ruota intorno alle stesse cose, alle medesime lamentazioni, producendo saturazione e noia”. Una considerazione difficile, dolorosa: “Il rapporto fra memoria e paesaggio in Italia sembra non interessare nessuno, come nessuno pensa che la funzione estetica, la bellezza dei luoghi e dei ricordi che essi rappresentano abbiano un grande valore nel processo educativo”. Il dissesto causato dalla Storia sui luoghi ha inferto al paesaggio ferite che sono il risultato di odio, guerra, torture, bombardamenti. La parola stessa, “Memoria”, rischia oggi di divenire inutilizzabile. Il testo di Cavaglion cerca di rigenerarla compiendo un viaggio che non è fatto solo di luoghi ma anche dei libri che quei luoghi descrivono. E di sogni, e del desiderio di memoriali e musei nuovi, ispirati a quel museo utopistico che guarda al cielo raccontato da Romain Gary nel suo ultimo libro; un museo creato da Ambroise Fleury un personaggio che, come il nipote Ludovic, voce narrante de Gli aquiloni (Neri Pozza), ha una sorta di “infermità congenita”: ambedue non sanno dimenticare, non conoscono la facoltà consolatoria dell’oblio. Sono destinati a ricordare.

Ada Treves

(Martedì 25 maggio alle 18 l’autore dialogherà sul libro con Robert Gordon e Gadi Luzzatto Voghera in diretta Facebook sulla pagina della Fondazione CDEC)

Le due Gorizie, la ferita e la guarigione nell’incontro

Gorizia – Nova Gorica, Stazione Transalpina.
Il primo luogo contaminato che supera per intensità ogni altro luogo è la stazione ferroviaria, i binari dei treni, un topos nella memoria e nelle scritture memoriali: segna la separazione, le partenze coatte, i convogli dei deportati, l’esilio, la fuga.
Incrocio fra Italia e Slovenia sulle macerie della Guer- ra fredda, là dove la linea di confine divideva in due la città, una sanguinosa ferita si è cicatrizzata intorno alla Stazione Transalpina di Gorizia. Un apposito sito – go2025.eu/en/ – ci guida attraverso le strade della città a suo tempo percorse da Carlo Michelstaedter e Graziadio Isaia Ascoli e ci avverte che nel 2025 le due città divise, Gorizia e Nova Gorica diventeranno insieme capitali europee della cultura. Le sofferenze del passato, che qui risalgono alla Prima guerra mondiale, all’odio antislavo che ha preceduto e, per molti versi, sopravanzato l’antisemitismo fascista, sono destinate a svanire, il lento processo di decontaminazione sta per concludersi con un lieto fine. Nel 1947 il nuovo confine tra Italia e Jugoslavia venne tracciato dividendo in due la piazza. Attraversata da un muro, la Stazione Transalpina divenne uno dei simboli della separazione politico-ideologica tra l’Europa occidentale e quella orientale durante gli anni della Guerra fredda. Più piccola della Stazione di Anversa su cui riflette Sebald e della Stazione del Binario 21 a Milano, la Transalpina è egualmente il simbolo del Male novecentesco, quello dei muri, delle barriere ideologiche, degli espatri clandestini. I confini dell’Italia nel secondo dopoguerra sono questi: l’esilio è un’istituzione, la memoria dovrà trarne profitto. Fino al 1954 lungo la linea di frontiera qui si snodava il filo spinato e la porta d’entrata della stazione ferroviaria non si apriva sulla piazza. Dopo il 1954 il filo spinato fu sostituito da una recinzione fatta da un muretto alto mezzo metro sovrastato da pilastri di calcestruzzo tra i quali era tesa una rete di filo di ferro. A osservare adesso la piazza la somiglianza con la marginalità del terzo paesaggio di Clément è impressionante. Sulla facciata della stazione campeggiavano fino al 1991 la stella rossa e la scritta in serbo-croato MI GRADIMO SOCIJALIZAM (Noi costruiamo il socialismo). Due mondi che si sono a lungo fronteggiati si riuniranno in nome dell’Europa: la guarigione dopo una lunga convalescenza è a portata di mano.

Alberto Cavaglion
(da Decontaminare le memorie, Add editore)

(25 maggio 2021)