Parliamo d’altro

Nella Genesi c’è una spiegazione degli eventi. Poi l’abbiamo trovata in altri autori ebrei, come Karl Marx e Sigmund Freud. Ma la spiegazione biblica è una non spiegazione perché, a sua volta, non spiega del tutto la spiegazione. Tuttavia, è autosufficiente, e forse in questo è più moderna di quelle successive.
Modestamente, dice solo di essere all’inizio (Bereshit) ma non esclude che la fine del mondo possa essere simmetrica (non eguale, però) agli inizi.
Adamo ed Eva sono scacciati dal Paradiso perché capiscono, e poi nel Kohelet se ne spiegano in modo inequivoco le conseguenze. Caino, invece, commette un altro atto terribile e moralmente peggiore: uccide. Lo fa per gelosia, e la gelosia non è del tutto assente dagli eventi odierni.
Il testo sacro si presta a diverse interpretazioni, a dimostrazione (ma questo lo sa anche il giurista più stupido) della falsità del brocardo “In claris non fit interpretatio”. Lo dico perché il testo biblico è chiarissimo, il Signore, per esempio, chiede a Caino di controllarsi.
Gli ebrei danno la colpa a sé stessi, e in questo i sacri testi danno loro una mano. Al riguardo c’è una sterminata letteratura, vasta abbastanza da rendere dubbia la necessità delle citazioni, perché non basterebbe tutta la memoria virtuale. Sovente, questa colpa si sposa con l’utilità, e questo lo sapevano gli ebrei convertiti che andavano a predicare ai loro ‘colleghi’ rinchiusi nel lurido ghetto; ce ne stanno ancora, l’unica differenza è (mi dispiace per Marshall McLuhan) il mezzo, perché allora non andavano in televisione, ma non per cattiva volontà bensì, più prosaicamente, perché non l’avevano ancora inventata.
Nel frattempo, è sorto un ulteriore astro nel firmamento degli ebrei che incolpano se stessi. John Yarmuth, deputato democratico ebreo (ma anche democritico) è autore di un’idea che, se non gli varrà il Nobel, in tempi preteriti gli avrebbe assicurato la partecipazione al Festival degli Sconosciuti di Ariccia: “Meno fondi a Israele per indurlo a trattare” (Corriere della sera, 20 maggio 2021). I travagli identitari sono sempre esistiti, ma se impediscono di capire che per trattare bisogna essere in due, vuol dire che è stata superata la soglia critica. Sorprende – pure – il sottile razzismo insito nella certezza che Israele possa fare tutto da sola, senza la controparte, come se quest’ultima non avesse pari dignità. L’ultima volta che abbiamo visto uno che faceva al contempo da pubblico ministero e da testimone è stata nel film “Bananas” di Woody Allen. Però era una commedia.
Il conflitto in corso è asimmetrico. Per uno sfratto pendente presso la Suprema Corte israeliana (non controllata da estremisti ebrei, e questo lo dimentica Etgar Keret) si lanciano 3500 razzi; una bella dritta per gli esperti in locazioni. Quando a Bibi Netanyahu venne in mente la pessima idea di annettersi pezzi di Cisgiordania (e qui Francesco Lucrezi scrisse un bellissimo pezzo) gli Accordi d’Abramo lo fecero desistere. Pace in cambio di pace e non più pace in cambio di terra, che sa di estorsione.
Sull’occupazione ci sono continue geremiadi, ma bisognerebbe intendersi: se la controparte araba non chiarisce prima quali siano le terre non occupate, dovremmo pensare che manchi un elemento che plana sul diritto dei contratti: la buona fede.
Hamas, dal canto suo, è in buona fede, e sicuramente lo è più di Israele. La sua Carta recita: “Il tempo non verrà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei (e uccidili); finché gli ebrei si nascondono dietro le rocce e gli alberi, che grideranno: Musulmano! C’è un ebreo che si nasconde dietro di me, vieni e uccidilo!”.
Mi rendo conto che è impopolare ricordare che, se la vita umana è breve per definizione, per gli ebrei c’è sempre chi gliela vuole accorciare, anche perché, anziché prenderne atto, gli ebrei iniziano a divagare. Parliamo d’altro.

Emanuele Calò, giurista

(25 maggio 2021)