Primo Levi e Dante
Come tutti sanno, e come abbiano ricordato nel nostro contributo di mercoledì scorso, Il Canto di Ulisse è il titolo di un celebre capitolo del libro di memorie di Primo Levi Se questo è un uomo. Esso rappresenta, a mio avviso, non solo una straordinaria pagina di letteratura – davvero degna di essere inscritta nell’Olimpo delle più alte capacità di espressione letteraria -, ma, anche, e soprattutto, come ho affermato la scorsa settimana, un’incredibile testimonianza riguardo alla capacità dell’uomo di difendere, anche nelle condizioni più estreme, la propria dignità.
La vicenda è nota. Un giorno, al prigioniero viene concessa la fortunata opportunità di svolgere una mansione diversa, in quanto gli viene ordinato di andare a raccogliere il rancio, a un chilometro di distanza. “Era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine”. L’avrebbe accompagnato lo studente alsaziano Jean, detto ‘Pikolo’ in quanto il più giovane della baracca.
Levi avverte in sé l’irresistibile impulso a non sprecare questa preziosa opportunità, ma a utilizzarla per ridare, a sé stesso e al suo compagno, almeno un bagliore della perdita umanità. Ed ecco emergere, da chi sa quale anfratto della memoria e della coscienza, il Canto di Ulisse di Dante: “Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto”.
Ed ecco che Primo diventa, per Jean, Virgilio, e, in “quell’ora che già non è più un’ora”, gli spiega il senso di quella vicenda arcana, oscura e tenebrosa, da cui gli pare possa ricavarsi una qualche misteriosa chiave di interpretazione di quel loro terribile, assurdo presente.
“Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la ragione, Beatrice è la teologia.
Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando…”.
Levi si sforza di recitare e di tradurre in francese, ma si trova impedito da quelle che gli paiono essere una memoria appannata e una modesta conoscenza del francese: “povero Dante e povero francese!”. Ma quanti avrebbero saputo fare di meglio? E in un posto chiamato Auschwitz?! La modestia del testimone è sincera, faceva parte del suo carattere (io ho avuto il privilegio di conoscerlo personalmente), ma è per noi evidente che colui che si schernisce è un eroe che ha scalato l’Everest a piedi, sotto la tormenta, nel più rigido degli inverni, senza nessuna attrezzatura, ed è riuscito nell’impresa. E l’ha fatto – esattamente come Dante – in rappresentanza dell’intera umanità. Non sono d’accordo con Asher Salah, che, nel suo pur brillante commento pubblicato il 9 aprile scorso, scrive che Levi avrebbe dimostrato una conoscenza ‘scolastica’ della Commedia. Un lettore apprende dalle sue parole il senso profondo del Canto più di quanto farebbe leggendo le più dotte pagine di critica dantesca. Perché quello di Levi è un punto di osservazione unico, privilegiato, che nessun altro uomo, probabilmente, ha potuto utilizzare: legge un inferno fantastico dentro un inferno vero. Come ascoltare i versi del quinto Canto dall’interno del cuore di Francesca da Rimini, o sentire l’invocazione di Ettore morente sentendo la vita che fugge, avvolti da nient’altro all’infuori dell’odio feroce del nemico che ti ha abbattuto. Ma possiamo essere veramente sicuri, poi, che quello di Dante è un Inferno d’invenzione, mentre quello di Birkenau era vero? O meglio: percepiva, Primo, questa differenza? E in che termini?
Nessuno lo potrà mai sapere, occorrerebbe avere vissuto un’esperienza simile per potere rispondere.
La tragedia di Ulisse – come ebbi già a dire, in un’altra occasione –, all’interno della tragedia di Auschwitz, si colora di nuovi, tenebrosi significati, che Levi cerca di decifrare. Nel farlo, obbedisce a quello che gli pare essere un ordine perentorio, proveniente da un dio inesistente, che però esige obbedienza: l’ordine di capire, di non abbandonarsi alla deriva dell’insensatezza, al ghigno beffardo di un demonio che – al pari di quel dio – non esiste, ma ti sottopone, nondimeno, alla più crudele delle torture, in attesa di ucciderti.
Ma Levi è un uomo di scienza, sa che l’uomo fa parte della natura, e la natura ha le sue leggi. Tutto può e deve essere spiegato, anche Auschwitz. Ma occorre una parola particolare per tentare un’impresa del genere. Una parola profetica, rabdomantica, spiritica. Solo quella di Dante, forse, può essere adeguata. Il Dante dell’Inferno, il Dante di Ulisse.
Sul prosieguo di questa disperata e impossibile ricerca di senso, dirò qualcosa, ancora, mercoledì prossimo.
Francesco Lucrezi
(26 maggio 2021)