Machshevet Israel
I moniti del Sifrè Devarim
La traduzione italiana di uno dei più antichi commenti midrashici, seppur antologizzato, dev’essere celebrata: è una fonte disponibile in più, che aiuta il mondo ebraico a studiare e valorizzare il proprio immenso patrimonio esegetico-spirituale; ma aiuta (o dovrebbe aiutare) anche il mondo non ebraico a meglio conoscere e apprezzare quello stesso patrimonio senza il quale non si capisce cosa sia il giudaismo e chi siano gli ebrei. Parlo dell’antologia del Sifrè Devarim, tradotta e brevemente annotata dall’ebraista Alberto Mello, appena pubblicata da Giuntina con il titolo Il testamento di Mosè (pp. 182). Devarim/Deuteronomio – detto anche Mishnè Torà, il quinto libro della Torà – rivisita temi e precetti in parte già esposti nei tre precedenti; ma la sua ottica è vieppiù quella della Terra di Israele, eretz tovà, una ‘terra buona e bella’, diversa da ogni altra, esigente e a volte dura come lo sguardo del discepolo di rabbi ‘Aqivà, ossia Rabbi Shim‘on bar Yochai (quello creduto sepolto sul monte Meron), al quale probabilmente si deve molto, non tutto, del materiale di questo Sifrè. Come ricorda il curatore, si tratta di un midrash halakhico ma che contiene anche sezioni narrative, teologiche e pedagogiche, quelle privilegiate nella scelta traduttoria.
Pur vertendo su un testo biblico, questi commenti risentono del clima della fase più drammatica del periodo tannaitico, angustiato dalla perdita della dimesione politico-statale, in particolare dalla distruzione di Gerusalemme e del tempio. In tanta desolazione e angoscia il pensiero farisaico-rabbinico è permeato da domande tipo: perché HaQadosh Baruch Hu ha permesso questo? Non sta forse scritto in Devarim/Dt 11,12: “Gli occhi del Signore sono sempre su di essa”, sulla sua terra? Perché Israele è stato devastato dalla spada dei romani? Qual è il posto che Dio ha assegnato ai popoli (goym) e quale quello assegnato a suo popolo, Israele? Shim‘on bar Yochai raccoglie gli insegnamenti, le risposte e soprattutto le speranze di questa fase e Devarim è il testo in cui cercare risposte e speranza instillando, nonostante tutto, un grande amore per eretz Israel. In questa fase, tramite questi midrashim, si sviluppa la consapevolezza che il futuro di Israele dipende dalla fedeltà alla Torà, al ‘libro’: nella Torà solo Devarim parla della Torà come ‘libro’, sottomettendo persino il potere politico al codice sacro (17,18). Leggiamo nel Sifrè: “Rabbi Shim‘on bar Yochai dice ancora: Una pagnotta e un bastone scesero dal cielo legati insieme. Dio disse a Israele: Se osserverete la Torà, ecco qui una pagnotta da mangiare; altrimenti, ecco qui un bastone per colpirvi”. Dopo il 135 Israele è già stato colpito dal bastone e tale immagine, mentre spiega la catastrofe, indica la via d’uscita nel ritorno alla Torà. Leggiamo subito dopo: “Rabbi El‘azar di Modiin dice: Un libro e una spada scesero dal cielo insieme. Se osserverete la Torà scritta in questo libro, sarete salvati dalla spada, altrimenti ne sarete colpiti”. Idem, dopo il 135 la spada aveve già trafitto Israele due volte. Solo l’attaccamento al ‘libro’ poteva ridare vita e speranza al popolo depresso, ormai esiliato dalla Giudea.
Il grande talmudista David Weiss Halivni, shlità, anni fa riprese questo binomio – il libro e la spada – come titolo per la sua autobiografia di ebreo ungherese scampato alla Shoà. Intendeva fare un midrash su questo midrash e smentire il monito di Rabbi El‘azar di Modiin: per quasi due millenni ci siano attaccati al libro, lo abbiamo studiato e praticato anno dopo anno, con amore, senza mai abbandonarlo, e tuttavia la spada ci ha trafitti di nuovo… Non è un anti-midrash; piuttosto è la continuazione delle domande poste prima da Geremia e poi dai tannaiti che produssero il Sifrè Devarim che oggi abbiamo tra le mani in italiano.
Traiamo un altro esempio, su Devarim 32,7-10, brano in versi e non in prosa, dove si parla del (sempre difficile) rapporto tra Israele e i goym, nel senso del latino gentes, e si afferma che “l’Altissimo [‘Elion] fissò i confini dei popoli secondo il numero dei figli di Israele”. Così il testo masoretico. Alberto Mello ricorda in nota che un frammento qumranico e versioni più antiche avevano l’espressione “secondo il numero dei figli di Dio”. Il testo tràdito dal giudaismo rabbinico avrebbe qui interpretato o adottato una più recente versione targumica, che mette così in relazione diretta Israele e le genti. Di più, quel “secondo il numero” è riletto come “per amore di”, al fine di evidenziare la posizione teologica di Israele e della sua terra (nello spirito delle grandi profezie escatologiche di Isaia e Micha). L’elezione di Israele ha senso solo sullo sfondo e in dialettica con gli altri popoli, che non sono estranei ma parenti: fratelli, zii e nipoti (discendenti di Lot, di Esaù, di Ismaele…) ma i figli di Giacobbe, dice per contrasto il midrash, sono tutti Israele. Ma chi scelse chi, tra Israele e il Santo benedetto? “Veramente la cosa rimane indecisa: non sappiamo se è il Santo benedetto che ha scelto Giacobbe/Israele o se è Giacobbe/Israele che ha scelto il Santo benedetto”. In ogni caso, il midrash conclude: “Li protesse da qualunque danno, ché: Chi tocca voi, tocca la pupilla dei miei occhi” (Zaccaria 2,12).
Massimo Giuliani, Università di Trento
(27 maggio 2021)