Autorevolezza e libertà

Un problema del tempo che stiamo vivendo è la crisi del principio di autorità. Il rifiuto dell’autoritarismo, posto che quest’ultimo costituisce di per sé una patologia dei rapporti di potere, si è trasformato nel diniego di qualsiasi manifestazione di autorevolezza. In questo secondo caso, tuttavia, non è avvenuta nessuna “liberazione” delle coscienze e della consapevolezza, così come non si è dilatato alcun spazio di libertà individuale. Più prosaicamente, si è invece generata una situazione per la quale si ritiene che la propria autonomia personale corrisponda con la diffidenza e il rifiuto preventivi verso qualsiasi competenza che non derivi da se stessi, ovvero che non sia una proiezione della propria individualità. Da ciò, inesorabilmente, ne deriva il diniego del magistero delle istituzioni pubbliche, quindi della loro funzione di indirizzo in ogni ambito della vita sociale. In un tempo non troppo remoto esistevano ruoli e funzioni che un pensiero e una condotta condivisi tendevano a preservare, riconoscendo l’importanza per l’intera collettività del ruolo svolto da organizzazioni collettive nella tutela degli interessi comuni. Tutto ciò aveva molto a che fare con un “ordine” della società, una sorta di patto implicito finalizzato a garantirne l’equilibrio, se non proprio la conservazione, scansando deviazioni impreviste verso rotte che quell’ordine avrebbero invece potuto sovvertire e disintegrare. Ma cosa accade quando anche quegli argini vengono meno? Se la prima sensazione può essere quella di un affrancamento da vincoli vissuti come troppo stringenti, ed anche non autentici, subentra poi la solitudine degli indifesi: quelle stesse persone che hanno contribuito a smantellare ogni forma di autorevolezza, rischiano ora di scoprire, a proprie spese, di non potere più ricorrere alle tutele che le istituzioni collettive altrimenti garantiscono alla società. All’origine di questo atteggiamento c’è un nesso molto forte tra rifiuto di qualsiasi obbligo verso gli altri, chiusura in una dimensione non tanto individualista quanto familistica, ovvero depositaria di obblighi solo verso se stessi e i propri omologhi, e decadenza del principio di responsabilità. Le società moderne, e con esse il sistema di garanzie rivolte ai cittadini, nascono invece proprio dal superamento delle appartenenze particolariste, di piccolo gruppo. Poiché i poteri, che pure continuano ad esistere quand’anche si dica di volerne mettere in discussione la legittimità, si fondano invece su quelle asimmetrie di ruoli, capacità e risorse tra individui che stanno all’origine delle società. Nessuna diseguaglianza (che è cosa ben diversa dal diritto alla differenza) potrà mai essere superata con il solo ricorso a se stessi, nel rifiuto di qualsiasi logica di cittadinanza. E quando decade l’autorevolezza delle norme e delle istituzioni che sono chiamate ad incarnarle e a farle rispettare, non si produce un maggiore spazio di libertà bensì un’imposizione crescente dell’arbitrio, quest’ultimo basato sul ricorso alla forza da parte di chi ne possiede di più rispetto al resto della collettività. Se esiste un criterio ricattatorio con il quale si mette la sordina e la mordacchia a qualsiasi forma di indipendenza, ossia un meccanismo coercitivo per cui organismi collettivi – nel tempo – hanno esercitato un’ingerenza continua nell’esistenza delle persone, è del pari impossibile disconoscere che la libertà dei singoli riposi nel rispetto delle norme di reciprocità, senza le quali c’è solo il ritorno al belluino rapporto di prevaricazione del più forte contro il più debole. La rivendicazione della propria autonomia (una conquista della nostra modernità) non può prescindere dal riconoscimento che essa non è mai un assoluto bensì una dimensione personale che deve incontrarsi e interagire con l’autonomia l’altrui. Senza questo scambio, altrimenti, il rischio è che tutto precipiti nello sgretolamento propri di quegli spazi senza i quali è impossibile vivere, e viversi, come soggetti liberi.

Claudio Vercelli

(30 maggio 2021)