Contro la calunnia,
la tradizione ebraica
A dire quanto siano distruttive la maldicenza e la diffamazione lo dice in modo insistente fino all’ossessione l’opera del rabbino Israel Meir Kagan, che con il nome della sua opera è ricordato, Chafetz Chaim. A tal punto è deprecata la maldicenza nell’ebraismo che nella lingua franca, la lingua mista che rendeva possibile la comunicazione fra i mercanti delle coste mediterranee dal ‘500 in poi, è registrata un’unica parola ebraica, e questa è ‘malsinar’, con il senso di calunniare. ‘Lehalshin’, in ebraico significa appunto calunniare, e ‘malshin’ è il calunniatore. Il termine è passato anche nella lingua spagnola e in quella portoghese, in ambito evidentemente sefardita.
Insomma, si capisce quanto i mercanti usassero la pratica della calunnia nello svolgimento dei loro traffici, ma si coglie anche quanto ritenessero importante definirla e denunciarla per contenerla.
E che a definirla sia stato usato un termine ebraico, l’unico termine ebraico che concorre a costruire la lingua franca, può dare l’idea di quanto forte fosse nella cultura ebraica l’impegno a censurare i comportamenti di scorrettezza reciproca fra i mercanti, e forse fra gli uomini.
Nel dialetto giudeo-veneziano dei miei genitori, la parola ‘malsinar’ ricorreva proprio per significare, anche solo scherzosamente, ‘non attribuirmi cose che non ho detto o non ho fatto’.
Che bello se riuscissimo a trattarci con la correttezza e con l’onestà che non ha bisogno di ricorrere alla pratica deleteria del ‘malsinarse’.
Il Chafetz Chaim è una lettura pignola e ripetitiva, ma forse lo è volutamente, per inculcare nella gente un concetto semplice, ma alla cui pratica è assai difficile attenersi. È più facile mangiare casher che evitare di diffamare il prossimo.
Post Scriptum: varrebbe la pena di inserire ‘malsinar’ nei dizionari di Giudeo-italiano, anche solo per completezza, se non per opportunità morale.
Dario Calimani