L’antisemitismo degli intellettuali

A chi è abituato a frequentare certi ambienti è capitato molto spesso di trovarsi, a proposito del giudizio su Israele – in minoranza, soverchiato, almeno numericamente, da chi abitualmente assume una posizione di ostilità nei confronti dello Stato ebraico. Finora ho attribuito questa diversità di giudizio alla diversa appartenenza politico-culturale: mentre la mia cultura fa riferimento alla democrazia laica che, sia detto tra parentesi, non ha più in Italia una adeguata rappresentanza politica, quella di molti miei interlocutori è ancora legata alle reminiscenze dell’egemonia del PCI sulla cultura italiana e da lì non riescono a muoversi. Semplici controversie politiche quindi, per giunta più legate al passato, anche se hanno conseguenze sul presente.
Ma da un po’ di tempo ho cominciato a riflettere in termini diversi e in questo mi hanno aiutato proprio certi miei amici che hanno preso l’abitudine di definire Israele come uno Stato d’apartheid: Che cos’è l’antisemitismo se non la costruzione di stereotipi non verificati e non verificabili che, senza alcun riscontro nella realtà, vengono ossessivamente ripetuti fino ad assumere l’aspetto del senso comune? Questi stereotipi non sono invariabili nel tempo: in certe epoche storiche hanno assunto l’aspetto di tesi religiose oppure scientifiche, come nel caso del razzismo. Certo, oggi è piuttosto raro imbattersi in qualcuno che ripete l’accusa del sangue o che è convinto dell’inferiorità della “razza” ebraica. La scomparsa o comunque l’emarginazione di queste forme antiquate di antisemitismo fa sentire molte persone al sicuro da tale rischio che, anzi, reagiscono con sdegno se tale accusa viene formulata nei loro confronti. Ma queste persone non si rendono conto del meccanismo della creazione degli stereotipi antisemiti e diventano così non solo portatori ma anche diffusori di tali pregiudizi.
L’esempio dell’accusa di apartheid rivolta ad Israele è a questo proposito illuminante. Si può essere d’accordo oppure dissentire anche radicalmente dalla politica dei vari governi israeliani; ma chi abbia una conoscenza anche superficiale della realtà israeliana sa che in Israele non esiste alcuna forma di apartheid. Apartheid è una parola pesante con un preciso significato che non può essere dilatato al di là del contesto per il quale è stata coniata e utilizzata se non nel caso in cui si verifichino situazioni analoghe. Il termine apartheid è stato usato per definire la realtà del Sudafrica prima del 1994 o. in passato, quella di alcuni Stati del Sud degli Stati Uniti: si tratta di una discriminazione legale sulla base della quale a una parte degli abitanti vengono negati i diritti che vengono riconosciuti agli altri cittadini e se ne teorizza un’esistenza “a parte”, separata dagli altri. Chi conosce, ripeto, anche superficialmente, Israele, sa che non esiste niente che possa essere definito apartheid. Che esista un conflitto non risolto con i palestinesi è sotto gli occhi di tutti ed è anche vero che questo conflitto si sia esteso negli ultimi tempi anche a una parte dei cittadini israeliani di etnia araba. Ma mai questo conflitto ha assunto le forme che siamo soliti definire con il termine apartheid. Se poi si vuol alludere alla diversità di condizione sociale, allora questa linea di frattura attraversa anche la popolazione ebraica e anche in questo caso non ha senso usare il termine apartheid.
Si tratta quindi di uno stereotipo introdotto inizialmente per scopi di polemica politica, ma che poi ha camminato per forza propria, come accade, appunto, con gli stereotipi.
D’altra parte gli intellettuali hanno poche armi per difendersi da tali rischi. Nel migliore dei casi, un atteggiamento diffuso è quello della falsa neutralità che abbiamo visto all’opera proprio nei giorni scorsi in occasione dell’ultimo conflitto con Gaza: un atteggiamento che ha portato un buon numero di intellettuali a pensare e scrivere che, se Hamas non era certo dalla parte della ragione, Israele era sicuramente da quella del torto con i suoi bombardamenti di reazione che hanno fatto vittime tra la popolazione civile. Questo atteggiamento – che in un altro contesto si potrebbe definire pilatesco se questo termine non ingenerasse più equivoci di quanti ne chiarisca – non è nuovo: per esempio ebbe una sua diffusione tra gli intellettuali al tempo del terrorismo degli anni ’70 e ‘80 del Novecento, dove ebbe una certa fortuna l’espressione “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. E’ un atteggiamento mentale che fa sentire gli intellettuali al di sopra delle parti, quindi in una posizione di equanimità, di serenità. In realtà è una forma di rinuncia al proprio compito, che è quello di cercare di avvicinarsi alla verità, la verità storica naturalmente. non altri tipi di verità. E’ un ennesimo caso di “trahison des clercs”. E’ questo diffuso atteggiamento che rende molti intellettuali privi di difese di fronte all‘emergere di nuovi stereotipi antisemiti.

Se mi sono soffermato tanto sul problema della diffusione di forme inconsapevoli di antisemitismo tra gli intellettuali è perché è evidente che oggi l’antisemitismo non è più qualcosa di residuale ma è riemerso in forme nuove e particolarmente virulente. Bene ha fatto perciò il Presidente Biden a denunciare con forza il riemergere di questo fenomeno, che è particolarmente evidente negli Stati Uniti, non solo nelle frange più radicali del Partito Democratico, ma anche, appunto, in ambienti accademici e intellettuali, spesso attraverso il linguaggio insidioso del “politicamente corretto”.

Valentino Baldacci