Pollak, Freud e Kafka

In un recente saggio (David Meghnagi – Freud, la Bildung e il motto di spirito più riuscito, p. 57, in: A.A.V.V., L’Ossessione per l’Antico – Sigmund Freud e Ludwig Pollak tra ebraismo, archeologia e collezionismo, Atti del Convegno: Roma, Palazzo Braschi, 7.4.2019 a cura di Roberta Ascarelli e Orietta Rossini 2021 Copyright Fondazione Museo Ebraico di Roma – Edizioni עt) Meghnagi scrive che “Nel dopoguerra è divenuto quasi ovvio associare l’antisemitismo alle destre e ai movimenti reazionari. Nel corso del secolo XIX non si trattò di una conclusione pacifica, e nemmeno oggi, se si pensa alle derive di un nuovo antisemitismo che ha riscoperto una falsa innocenza, proiettando sullo ‘Stato degli ebrei’ le immagini demoniache che un tempo erano riservate agli ebrei. Non si parla qui del diritto alla critica a questo o quel governo israeliano. Il diritto alla critica è il sale della democrazia. Si parla qui della delegittimazione del diritto stesso all’esistenza. Per non parlare della demonizzazione e dei doppi standard con cui viene giudicato”.
Il volume riguarda Pollak, archeologo, collezionista e mercante d’arte praghese, arrestato con la sua famiglia a Roma il 16 ottobre 1943, quindi deportato e assassinato ad Auschwitz. Nel bel volume Alessandra Di Castro dice che l’uccisione di Pollak ebbe luogo per il solo motivo di essere ebreo. Nondimeno, dopo migliaia di anni, bisognerebbe metabolizzare il fatto che l’ebraismo è una delle ricorrenti cause di decesso, a prescindere dallo spazio e dal tempo. Anzi, arrivare alla morte incolumi, senza subire angherie e nel proprio letto, a dispetto di tale patologia, dovrebbe costituire motivo di meraviglia.
Nel suo saggio, Meghnagi osserva pure che “L’odio contro la modernità ha coinciso storicamente con l’ostilità verso quella parte della popolazione che dalla nascita del moderno traeva le condizioni del suo ingresso a pieno titolo nella società”. Potremmo provare ad associare il termine ‘modernità’ con gli studi di Erich Fromm e di Karl Popper, che procedono per vie parallele; più difficile è associarvi il corrente suo contrario. Scrive anche, Meghnagi, che per (ciò che chiameremmo) gli yekke in Palestina, la psicoanalisi era il surrogato di un mondo perduto (p.64). Il mondo perduto lo troviamo in Arthur Conan Doyle, ma anche in James Hilton; preferiremmo, tuttavia, ritrovarlo nell’unificazione materiale di Freud e Colombo, laddove scoprono un mondo già abitato dai nostri démoni. Kafka – riferisce Meghnagi – rigettava la psicoanalisi, e vien da pensare che con un genitore come il suo non avrebbe potuto fare altrimenti.
Nel suo scritto, Meghnagi cita il senso di appartenenza di Freud al suo popolo; potremmo soggiungere que quello che per Freud era attrazione, nel tempo che viviamo si è tramutato in terrore, e non è un caso che l’ectoplasma del Bund attragga, in quanto consente di essere un ebreo culturale, ossia, un nulla ben vestito e sostanzialmente elegante, che necessita dell’altrui pochezza, perché gli consente leggiadre licenze, altrimenti vietate.
“Pollak guarderà alle sue origini come estrema risorsa per trovare la forza di vivere. In visita al cimitero ebraico di Praga, nel novembre 1930, scrive: Andati dopo al cimitero ebraico, come sempre molto interessante e commovente. I miei antenati sono lì. Ottantamila tombe! Visita nel Museo ebraico. Con commozione e compunzione visto i cancelli della Zigeunersynagogue. Ricordi di infanzia molto profondi” (p. 82). Pollak non avrà una tomba. Sulla tomba di Kafka, non moltissimi anni fa, trovai un bigliettino scemo in italiano: “non avevi bisogno di studiare legge”; già, chissà come avrebbe scritto Il Processo.

Emanuele Calò, giurista

(8 giugno 2021)