Tripoli, 1967: il pogrom

Le avvisaglie del pogrom c’erano state venerdì 2 giugno, quando anche gli ulema avevano invocato nelle moschee la jihad (la guerra santa), tenendo sermoni nella radio contro Israele e gli ebrei. Quasi contemporaneamente era stata indetta per il 5 giugno una settimana in favore della causa palestinese, alla quale, sotto la pressione della propaganda egiziana e siriana, si era associato anche il governo, dichiarando a nome del re che il Paese si considerava “in stato di guerra difensiva”, e si poneva a piena disposizione “per la liberazione della Palestina”. Le radio accese a tutto volume in ogni luogo, affermavano che “l’entità sionista” era ormai senza speranza e i suoi abitanti sarebbero stati sterminati e gettati nel mare.

Come ogni anno in occasione della “Giornata della Palestina” i più benestanti avevano dovuto versare il loro obolo per la Palestina. Odiosamente taglieggiati, avevano dovuto fingere di essere contenti, sperando che il male minore proteggesse da quello peggiore. La direzione della Comunità ebraica inviò al Re un telegramma di solidarietà, in cui si riaffermava la fedeltà al re e una posizione di neutralità.

Nelle sinagoghe fu proclamato un digiuno, nelle case si accendevano i lumi a Rabbi Meir a Rabbì Shim’on Bar Yochai, due grandi rabbini del Talmud, che nella tradizione mistica, dominante fra gli ebrei di Libia, rivestono un ruolo centrale, al punto da avere un posto tra i Patriarchi e il Re David nella toccante invocazione di ‘Anenu di Yom Kipppur.

In quelle settimane di angoscia, più di ogni altra cosa mi terrorizzava: la prospettiva di una violenza generalizzata contro le donne e gli anziani. Più di ogni altra cosa temevo per mia sorella, per mia madre e mio padre, per i mei fratelli. Le immagini terrifiche di quel che sarebbe potuto accadere, erano attenuate in me dall’angoscia prodotta dall’immagine degli eserciti arabi che accerchiano lo Stato ebraico.
Lo spirito del sacrificio si era impossessato delle mie fibre più interne. Avevo perso qualsiasi interesse per la mia personale sopravvivenza. La calma che precede la fine si era impadronita delle mie fibre. Nel buio e nel silenzio della notte mi chiedevo cosa sarebbe accaduto se a colpire per primi fossero stati gli eserciti arabi. Tel-Aviv dista pochi chilometri dal fronte orientale, il confine a Gerusalemme era costituito da un reticolato e noi intrappolati e isolati dal resto del mondo. Dormivo armato di coltello, pensando a come vendere cara la pelle mia e dei miei.

Alla notizia dello scoppio della guerra, il 5 giugno 1967, la folla esultò per le strade. Radio Cairo annunciò la distruzione di Tel-Aviv e Haifa. Eravamo certi che fossero notizie false, di una propaganda sanguinaria, rozza e volgare. L’angoscia era grande. Quelle urla erano un assaggio di quel che ci attendeva con lo scatenamento della violenza indifferenziata contro le persone e le proprietà. Dai balconi della sede dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) giungevano appelli alla Jihad.
Nell’attesa silenziosa e interminabile che i familiari e i vicini rientrassero tutti a casa, mi chiedevo angosciato cosa avremmo dovuto fare se la folla avesse tentato di forzare il portone d’ingresso del palazzo in cui abitavamo. Mio fratello Isaac era riuscito a fuggire da una finestra interna, quando l’ufficio presso cui lavorava, era già in fiamme. Come nel 1945 e nel 1948 gruppi di giovani arabi avevano segnato con il gesso le case e i negozi degli ebrei.

Solo dopo aver proclamato lo stato di emergenza e il coprifuoco, le autorità erano riuscite con difficoltà a riprendere il controllo della situazione. Dalle tapparelle delle finestre vedevo di notte con angoscia salire il fumo dall’antico quartiere ebraico. Il momento critico fu giovedì 8 giugno, quando la polizia dovette fronteggiare una marcia su Tripoli dei contadini di una vicina località (Zawia), che aveva fornito la più alta percentuale di volontari libici contro Israele.
Armati di bastoni, picconi e coltelli, intendevano “ripulire” di ogni presenza ebraica la città. La congiunzione delle due proteste doveva segnare l’inizio di una sollevazione generale che avrebbe dovuto coinvolgere, nelle intenzioni degli organizzatori, settori dell’esercito. Le cose andarono per fortuna diversamente. Gli ebrei che vivevano nell’antico quartiere furono evacuati e trasportati a centinaia, insieme a molti altri, fatti affluire dai quartieri della città nuova, nei posti di polizia, nelle caserme e nel campo di Gurgi, alla periferia della città.

Nei giorni seguenti le notizie degli scontri avvenuti alla periferia della città tra la polizia e i rivoltosi si mescolavano alle notizie che l’aviazione israeliana si accingeva a bombardare il Paese. Nella fantasia collettiva Israele è diventato onnipotente, i suoi soldati potevano arrivare ovunque per ripagare con la stessa moneta le efferatezze compiute contro noi ebrei indifesi. L’isteria collettiva era alimentata dalla notizia che gli israeliani erano entrati nello spazio aereo egiziano da ovest, e non da est come ci si attendeva.

Dalle tapparelle chiuse delle finestre di casa non era chiaro che cosa stesse accadendo. Auto e moto, cariche di sacchi di farina, erano in fuga verso l’interno, come se temessero un inseguimento.

L’attività economica era totalmente paralizzata, la gente che alcuni giorni prima esultava, vagava inebetita. Erano cessati gli abbracci sotto la sede dell’Organizzazione per la Librazione della Palestina (OLP) tra i giovani volontari per il fronte, vicino ai camion carichi di masserizie, il the incluso, per una gita di morte. L’esaltazione parossistica aveva lasciato il posto alla disperazione più cupa. Di notte il silenzio era rotto dai passi pesanti dei militari che montavano la guardia alle nostre abitazioni. I camion della polizia si avvicendavano per le strade deserte.

Non vi era nulla che indicasse un possibile ritorno alla situazione precedente. Non avevamo notizie dei nostri parenti e di mio fratello Simon, emigrato sette anni prima in Israele. Ci chiedevamo cosa fare se l’esercito o la polizia fossero venuti a prelevarci per il campo di Gurgi, in una località vicino a Tripoli, dove gli ebrei della città vecchia erano stati trasferiti in massa dalla polizia dopo che le loro case erano state assalite e bruciate. E se fosse stata una trappola per ucciderci tutti? Chi poteva garantirci che i militari, dopo averci caricato su dei camion con la prospettiva di portarci in un luogo sicuro, non decidessero poi di ucciderci? Mia madre non si dava pace. Incitava noi tutti a rifiutarci di seguire la polizia nel caso ci fosse stato richiesto. Non era già avvenuto con i nazisti che le persone partissero ignare verso la “soluzione finale”? Mai e poi mai avremmo dovuto lasciare le nostre case. Mio fratello Jacob che aveva preso in mano la situazione era dello stesso avviso e noi tutti concordavamo. Rischiando la vita, nei giorni che precedettero la partenza, mio fratello recuperò il denaro che un inquilino anziano teneva in negozio. Fu lui a organizzare la partenza, facendo avere il necessario a chi si era rifugiato presso di noi, e non aveva più nulla.

Le paure di mia madre non erano infondate. Come abbiamo appreso in seguito, con quella tecnica un gruppo di soldati aveva prelevato e trucidato le famiglie Raccah e Luzon, che abitavano nella nostra stessa via. Il progetto omicida messo in atto contro le famiglie Raccah e Luzon, assassinate alla periferia di Tripoli, fu bloccato dall’intervento della polizia, insospettitasi dalle ripetute richieste d’informazione dei parenti.

Eravamo in cinquantadue e dividevamo il cibo che mia madre riusciva a procurarsi grazie a una famiglia di musulmani di colore, in cambio di denaro e di piccoli regali. I figli avevano partecipato ai saccheggi, ma con la nostra famiglia, per volontà della loro madre, si comportarono diversamente. Per non creare sospetti tra i vicini arabi e palestinesi, dopo aver fatto la spesa, chiamavano mia madre col nome della loro figlia più piccola, ‘Ishà. Come noi, altre famiglie avevano incontrato in quei giorni la solidarietà dei vicini cristiani e musulmani. Il giorno della partenza la mamma di ‘Ishà, aveva chiesto perdono a mia madre.

Potevamo dirci fortunati. Abitavamo non molto distanti dal comando centrale di polizia. La sera ci riunivamo tutti in una casa per ascoltare insieme le ultime notizie dalla voce di Arrigo Levi. Passata la grande paura, c’era chi scaricava la tensione accumulata mimando l’ultimo d scorso di Nasser, in cui si annunciavano le dimissioni e lo scambio di telefonate fra re Hussein e il rais egiziano, intercettato dai servizi segreti israeliani.
Una sicurezza nuova ha trovato posto nei cuori. In molte case si concepiscono nuove vite. Le immagini sul video si avvicendavano. Alla vista in televisione dei soldati di Israele che pregano e pongono bigliettini nelle pieghe delle fessure doloranti del Kotel Hamma’ravì (il Muro Occidentale), la commozione è alta. Io sono solo con un pensiero che non mi dà pace. La grande paura è passata. Israele è salvo e la gente è in festa. Ma per coloro che hanno perso i figli? Mi chiedo se rivedrò mai mio fratello, partito da Tripoli nel 1967. Mio fratello non lo vedo da sette anni. Potrò mai incontrarlo di nuovo e abbracciarlo? E i cugini e gli zii che non ho mai conosciuto? I nonni di cui ho solo sentito parlare? Chi sa se rivedrò i miei amici… Una donna palestinese guada col figlio in braccio il ponte Allenby. «Poveretti», esclama una bimba fra noi. «Poveretti mrd» (Poveretti un accidente), le fa eco un altro. “Se fosse andata diversamente, per noi era finita”. Nasce una discussione alla quale non partecipo. “Chlea cdui, bnc sghera” (“Non vedi che è piccola. Lasciala parlare”), dice uno. “Sghera, un corno”, gli fa eco un altro, ma a bassa voce, per non ferire la piccola e i suoi genitori.

Levatasi dalle nostre case indifese la voce smarrita di quella colomba era la conferma che la piccola sorella, invocata ogni anno, all’arrivo di Rosh Hashanah (il Capodanno ebraico), era con noi. Immagine simbolo della Shekhinah che tutti accoglie, non ci aveva abbandonati nel nostro doloroso esilio.

La partenza

I giorni trascorrono lentamente. Siamo rinchiusi nelle nostre case. In un appartamento il telefono squilla. Il più delle volte sono telefonate minatorie che mettono a dura prova i nostri nervi. Un giovane ebreo, che ha commesso l’imprudenza di riaprire i battenti della sua macelleria per portare la carne a degli amici, viene ucciso a coltellate; una ragazza uscita col velo arabo per procurarsi del pane, viene uccisa sul posto. L’accento l’ha tradita, o forse qualcuno l’ha riconosciuta. Chi possiede un passaporto straniero ha già lasciato la città. Per noi tutto è più complicato: abbiamo bisogno di un visto di uscita e di un Paese disposto almeno a farci transitare per Israele. Un Paese esiste: l’Italia. Alla fine, dopo lunghe trattative internazionali, il governo libico si è deciso di offrire un visto turistico di tre mesi agli ebrei che lo avessero chiesto. Dovrei essere felice. Ho accarezzato questo sogno per anni. Ora che si avvicina il momento sono pieno di amarezza e non sono solo con questi pensieri. Basta guardare il viso di mio fratello Victor, o quello smarrito di mia sorella e di mio padre che vedo piangere in silenzio.

Non so chi dei miei amici è vivo, la sera del 5 giugno le fiamme sono salite molto in alto sull’antico quartiere ebraico. Se uno di noi è preso dalla tristezza c’è sempre chi lo incoraggia benevolmente. Mio fratello Victor, che non vuole rassegnarsi, di nascosto ha telefonato ai colleghi arabi di ufficio per un ultimo saluto. Lo insultano e minacciano di sgozzarlo, se solo sanno dov’è. È sconvolto.

Durante i preparativi dalla tasca di mia madre cade un calzino. È di mio fratello Simon, che ha lasciato il Paese sette anni fa. Quante volte ci era stato chiesto di dare una spiegazione per la sua assenza, dalle autorità e dai vicini arabi. Mia madre non si è mai separata da quel calzino; l’ha tenuto segretamente fra le tasche e sul grembo. Mio fratello è al fronte, e io non so se è vivo e se farà mai ritorno. Fra me dico: «Signore fa’ che sia vivo!».

È il giorno della partenza. Una jeep della polizia ci attende. È mattino presto, l’aria è ancora fresca grazie alla brezza marina che ci dà il suo benevolo augurio. Tra poco il caldo sarà afoso. Il poliziotto armato, non vede l’ora di liberarsi dall’ingrato incarico. Mi sento solo con i miei bagagli. Il sogno di lasciare per sempre il mio Paese si sta per avverare. Non è in questo modo che ho immaginato la mia partenza. Nella solitudine, mentre confusamente cerco di mettere ordine nei miei pensieri, vedo passare un amico italo-maltese. Uno sguardo carico di parole. Ci siamo detti ciao, come se nulla fosse accaduto.

Epilogo

Per molti anni ho vissuto come se l’esperienza della mia infanzia fosse appartenuta al passato più remoto. Un grande spartiacque divideva la mia vita: il prima e il dopo erano fra loro irriducibili, anche se erano trascorsi pochi anni. Una frattura nel tempo e nello spazio. Ho poi compreso, occupandomi del problema da un punto di vista professionale, che il mio sentire risponde a uno schema. Nel mio dolore non ero solo. Decine di migliaia di ebrei che hanno forzatamente lasciato i Paesi arabi ne condividono la struttura. Gli attori dei ricordi possono avere trascorso l’infanzia, la giovinezza, a mille e più chilometri di distanza dai luoghi in cui vivono ora – Roma, Parigi, New York, Londra o Tel-Aviv. Lo schema è simile. Solo a distanza di anni, con le generazioni che non hanno conosciuto direttamente quel passato, i legami hanno cominciato timidamente a riannodarsi, rinnovando l’interesse per i luoghi e le abitudini. Impegnato a sostegno del dialogo, e per una composizione politica e pacifica del conflitto mediorientale, l’idea di un ritorno al mio Paese natale, anche per una breve visita, non mi ha sfiorato mai. Non c’è più nulla che mi leghi a quel passato. Mi ritengo fortunato perché sono uscito vivo. Il legame tra le generazioni non si è spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la gente ha potuto crearsi una nuova vita libera in luoghi più ospitali. Tuttavia vi è sempre qualcosa d’inquietante nel ritenersi fortunati, perché altri hanno avuto un destino inenarrabile. Le emozioni possono sciogliersi nell’incontro con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo. Sul tabellone che indica i voli in partenza, due scritte ben distinte (Roma-Tel-Aviv, Roma-Tripoli) mi apparvero un giorno come sovrapposte. Mi sembrava che un luogo portasse all’altro e da uno si potesse tornare all’altro.
Come in sogno sono lì, qui e altrove. La mia Tripoli ha viaggiato con me, è parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi della musica orientale, così ricca ed espressiva, ai canti d’amore e a quelli liturgici che udivo in casa da bambino per la Birkhat levanà, che mi risuonano in mente in sogno, alla nostalgia che provo quando penso agli amici perduti, all’intensità dei profumi del mio Paese natale e alla sua brezza marina, alle mie fantasie quando guardavo le navi in partenza immaginandomi a bordo, cullato e protetto come in un grembo materno. E al piacere che provavo nel passare dall’arabo all’ebraico e dall’ebraico all’arabo, nel comporre un tema in italiano come se fosse latino, col risultato di scrivere in modo illeggibile. Sino a quando un mio insegnante di liceo, che aveva intuito il problema, mi disse: “Perché non imiti la prosa degli illuministi francesi? Loro scrivevano in modo chiaro, il tuo italiano ne uscirebbe arricchito e migliorato”. Il cambiamento fu notevole e i risultati non tardarono a venire. Per molto tempo ancora, per scrivere in italiano mi sono ispirato agli scrittori francesi del Settecento, sino a quando non ho trovato il modo di distillare e sciogliere in me la complessa melodia delle lingue in cui sono cresciuto. La mia coscienza vigile può cedere a una piacevole fantasia.

David Meghnagi, psicoanalista

(8 giugno 2021)