Yeladim
In Italia il calo delle nascite è ormai diventato una emergenza nazionale. Questo almeno indicano i dati e le previsioni di recente pubblicazione; così interpretano la questione le analisi dei nostri maggiori quotidiani; anche il governo mostra preoccupazione in proposito, intervenendo a sostegno di chi mette al mondo figli. Ultimamente passo alcuni mesi in Israele a fare il nonno, una delle attività più belle del mondo insieme a quella di insegnante che ho da poco terminato. Passeggiando nei giardini col mio nipotino, mia moglie ed io ci immergiamo quotidianamente in frotte di ragazzini scatenati che si rincorrono e si affannano su e giù dallo scivolo, in maree di bebè scarrozzati in passeggino da mamma o papà, in gruppi compatti e consistenti di giovani che a uno sguardo più attento si rivelano appartenere alla stessa numerosa famiglia. Niente di particolarmente strano: tutti i bambini vanno al parco e tutti i parchi del mondo sono pieni di bambini che giocano, qui in Israele come in Italia. Eppure l’impatto continuo (e certo non limitato agli spazi verdi) con una popolazione infantile vasta, diffusa, onnipresente colpisce tangibilmente il passante italiano qui in Israele e lo porta a farsi qualche domanda, a tentare qualche riflessione. La differenza di proporzione tra il rapporto quantitativo adulti/bambini in Israele e quello delle nostre città è talmente evidente anche a occhio nudo che alle spalle non può esserci solo una diversità di abitudini familiari alla radice di esse deve sussistere anche una mentalità, una visione del mondo “altra” rispetto a quella da noi prevalente.
L’immagine ebraica della famiglia come centro della vita umana e del rispetto della tradizione fornisce indubbiamente il suo forte contributo ad alimentare la grande quantità di nuclei numerosi, dominanti nella parte religiosa della popolazione israeliana. Ma non è certo questa l’unica spiegazione dell’alto livello delle nascite. La altrettanto vasta parte laica – molto laica e anti-tradizionalista – della società israeliana (quelli che i religiosi chiamano con qualche distanza “hilonim”) non è molto meno prolifica: quattro/cinque figli per ogni famiglia costituiscono una realtà ricorrente. La forte spinta demografica è forse generata dal prepotente sviluppo economico della Start-up Nation, in grado di emergere come poche altre realtà negli ultimi decenni e quindi di indurre la maggioranza della popolazione a non porsi limiti particolari di crescita? Direi di no, sia perché espansione economica nazionale e sviluppo demografico non sono necessariamente in rapporto diretto tra loro, sia perché Israele continua ad avere gravi ed estesi problemi sociali, fortemente accentuati dall’attuale pandemia che ha alimentato una diffusa e non usuale disoccupazione. La tendenza ad accrescere la famiglia rimane invece orientamento costante, tanto nella popolazione ebraica quanto in quella araba. Non pare insomma che alla radice del fenomeno – generale e persistente – si pongano soprattutto cause di ordine materiale.
E’ molto bello pensare che all’origine di questo “bisogno di dare vita” ci fosse, nei primi decenni dello Stato di Israele, la “voglia di vita” del popolo ebraico sopravvissuto nonostante tutto allo sterminio: una progetto di vita – connaturato a due valori fondanti dell’ebraismo, vita e comunità – capace di contrapporsi nei fatti al realizzato progetto nazista di morte collettiva. E’ molto bello, e forse anche vero; forse è vero in parte ancora oggi, almeno per alcuni. Ma a settantacinque-ottanta anni dalla Shoah quel nobile impulso, quello spirito di rivincita biologica e umana forse non è più così operante: o quantomeno non è più consapevole.
E allora, quale può essere l’elemento di fondo di questa forza demografica? Che sia una forma differente della stessa incrollabile energia che porta gli israeliani a non arrendersi mai agli eventi e alle violenze di una Terra Promessa che oltre al latte e al miele porta loro da sempre guerre e lutti? Uno slancio vitale (per usare una terminologia bergsoniana) che li sprona tutti a credere comunque in un futuro di sviluppo e di progresso? Insomma, uno sguardo positivo sul mondo portato ad accrescere attività, famiglia, lavoro?
Difficile a dirsi. Certo si tratta di uno stimolo molto diverso dalla tendenza che prevale nei giovani italiani: scarsa fiducia nella famiglia, legami stabili contratti ad età relativamente alta, basso numero di figli. All’origine dell’atteggiamento prudente o rinunciatario che si afferma da noi vanno evidentemente posti anche i problemi sociali, le tante questioni aperte del mondo del lavoro italiano, la gravissima disoccupazione divenuta drammatica quotidianità nell’epoca del Covid, in generale la profonda crisi economica dalla quale speriamo di riemergere parzialmente grazie agli aiuti europei. Ma, anche qui, non penso che la nostra scarsa energia demografica dipenda solo da carenze materiali. Se non lo era all’inizio, essa è divenuta col tempo una scelta esistenziale, una tendenza a concepire la vita in modo più privato, chiuso, libero da legami vincolanti; o forse a vivere l’intimità familiare in modo meno tradizionale e collettivo.
Non esprimo giudizi di valore su modelli di vita e di futuro familiare così diversi. Entrambi hanno elementi di valore e di profondità. Entrambi presentano problemi. La risposta che proviene dalle prospettive di sviluppo parla però evidentemente in favore del modello israeliano.
David Sorani
(8 giugno 2021)