Pagine Ebraiche giugno 2021
L’intervista a Gianfelice Facchetti:
“Il calcio difenda la Memoria”
Miglior momento per uscire con un libro su San Siro non sarebbe stato possibile, a pochi giorni dalla vittoria del diciannovesimo scudetto interista dopo un digiuno durato la bellezza di 11 anni. A tratti si è vista una “Grande Inter”, pur lontana anni luce dagli invincibili di un tempo di cui suo padre Giacinto è stato il condottiero. Ma, altra specialità della casa, un po’ anche una “Pazza Inter” per la sua capacità davvero unica di tenere sempre tutti sulla corda. Neanche il tempo di festeggiare la conclusione di uno dei migliori campionati della storia del club che già incombeva la necessità di sostituire l’allenatore che le ha dato, con il suo carisma e le sue competenze, la spinta decisiva. Giocatori e allenatori passano, si sa. Gli stadi invece no, son fatti per restare. Almeno sulla carta. Perché poi succede che un giorno si apra un dibattito. E che si arrivi a sostenere che, beh, sì, San Siro è la Scala del calcio, un polo di tradizione e passione. Ma che forse è ora di voltare pagina. Rinnovarlo come minimo. O addirittura abbatterlo, per far spazio a un impianto più moderno e funzionale. “C’era una volta a San Siro. Vita, calci e miracoli”, dell’attore e regista milanese Gianfelice Facchetti, è un libro che non lascia indifferenti. Il racconto di partite, emozioni e campioni che hanno lasciato un segno indelebile. Ma anche uno spunto, partendo dal calcio, per riflettere su temi di valenza universale. A partire dal complesso dialogo con la storia, quella con la S maiuscola.
Gianfelice, perché questo libro?
Nasce dal desiderio, in un periodo di stadi vuoti causa Covid, di riappropriarsi un po’ di memorie e istantanee. San Siro è, per chi ci è cresciuto come, un luogo del cuore. Ma non lo è né potrà mai esserlo dei soli tifosi dell’Inter. Si tratta, mi pare, di un vero e proprio patrimonio nazionale. Penso soprattutto che sia necessario mettere dei punti fermi. Il valore del ricordo, in quest’ottica, per me ha un valore immenso. In un’epoca che consuma e dimentica facilmente, bisogna sforzarsi di invertire il più possibile la tendenza. L’inconsapevolezza non porta mai frutti buoni.
Parli di calcio ma in realtà sembri alludere ad altro.
Perché è così, ovviamente. È un problema molto più ampio e non c’è ambito del nostro quotidiano, di fatto, che non ne sia interessato. Un processo di rimozione con il quale tutti rischiamo, prima o poi, di farci del male. Nel caso specifico del calcio il fenomeno è dettato anche dalla comparsa sulla scena di proprietà che non hanno alcuna conoscenza delle ‘piazze’ e delle loro peculiarità. Si guarda avanti, o almeno ci si illude di farlo, nel modo più sbagliato: tagliando i fili con il passato.
È corretto definire il tuo un libro ‘nostalgico’? È un aggettivo in cui ti ritrovi?
Certo, un po’ di nostalgia c’è. Ma non è l’unica chiave di lettura. La funzione delle storie che racconto è anche e soprattutto quella di suscitare consapevolezza. Non ho posizioni ideologiche sulla questione stadio. Ma sono convinto che, da qualunque parte la si guardi, sia prima necessario essere giusti e riconoscenti verso quello che San Siro ci ha dato. È il primo step, per me imprescindibile. Poi si può discutere di tutto il resto.
Non a caso il primo capitolo si intitola “Essere giusti con San Siro”…
Esatto, nel libro scrivo così: ‘Siamo i luoghi che abbiamo attraversato. Un minuto, un’ora, un giorno. Siamo la casa che abbiamo abitato, la strada percorsa, la terra solcata. Siamo le stanze, i corridoi, i cortili di una vita”. E poi siamo lo stadio, non uno qualunque. Siamo San Siro.
L’Inter nasce nel 1908. Nello statuto si proclama: “Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. Una promessa che, sotto il fascismo, sarà presto tradita.
Nel libro cerco di parlare anche di questo. Dei Mondiali del ‘34, apoteosi del regime, quando l’asso del wunderteam austriaco, l’immenso Matthias Sindelar, finì in ospedale proprio a Milano e lì conobbe Camilla Castagnola, ebrea, accanto alla quale, ormai inviso ai nazisti per il suo rifiuto di render loro omaggio nella partita celebrativa dell’Anschluss, avrebbe in seguito condiviso una tragica sorte.
Un viaggio che ti porta a confronto anche con altre straordinarie figure di quell’epoca, tra luci e ombre. Presidenti, come il napoletano Giorgio Ascarelli. Allenatori, come l’ungherese Arpad Weisz. Una figura centrale, ma a lungo dimenticata. “Dallo scudetto ad Auschwitz”, come ricorda Matteo Marani nel libro che ce lo ha restituito in tutta la sua grandezza e tragedia.
Mi emoziona il ricordo di questo personaggio, inestricabilmente legato anche alla mia famiglia. Fu proprio Weisz, infatti, a lanciare nel grande calcio Giuseppe Meazza. Quel Meazza, eroe di un’epoca, cui lo stadio è intitolato. E che tra gli altri, a sua volta, avrebbe “scoperto” e lanciato mio padre. Tra i cimeli, con tenerezza, conservo ancora la sua prima lettera di convocazione. La triangolazione Weisz-Meazza-Facchetti è molto suggestiva e racchiude un pezzo significativo di storia interista. Una storia da non dimenticare.
Nei tuoi lavori, sia a teatro che altrove, volgi spesso lo sguardo agli anni della guerra. Uno dei più incisivi, Bundesliga ‘44, metteva in scena una partita raccontata da Primo Levi ne I sommersi e i salvati: quella disputata ad Auschwitz tra le SS e i sonderkommando. Una partita alle soglie dell’inferno, centrale nell’elaborazione dell’abisso concentrazionario da parte del testimone-scrittore.
Viviamo purtroppo in un’epoca caratterizzata da grande ignoranza e superficialità. Determinati valori sono in crisi. Ma non dobbiamo arrenderci. Il racconto sportivo, e in particolare quello calcistico, possono essere la leva giusta da muovere. Il mezzo attraverso il quale portare sempre più persone a riflettere sui grandi temi e problemi della nostra società. Su quello che abbiamo nel frattempo conquistato. E su quello che dobbiamo respingere affinché non torni mai più. È una strada lungo la quale ho senz’altro intenzione di proseguire.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche giugno 2021
(9 giugno 2021)