“Moretto”, i 100 anni di un simbolo

“Avanza il piede sinistro, piantalo saldo in terra, come un soldato, fletti il ginocchio, ruota il tronco, raccogli la spinta, carica la spalla, piega il braccio a novanta gradi. Il gancio è carico, rilascia le velocità e somma le forze: piede, ginocchio, busto, spalla. Questo coordinato di potenza si abbatterà come una montagna su Amalek, qualunque veste indossi”.
Un paio di anni fa, in una emozionante trasposizione teatrale per la Fondazione Museo della Shoah, Antonello Capurso raccontava con queste parole uno dei personaggi più amati e popolari tra gli ebrei romani: Pacifico Di Consiglio, e cioè il “Moretto”. Il pugile dilettante che, nei mesi dell’occupazione nazista, tenne in scacco a più riprese SS e sgherri in camicia nera. Un simbolo di resistenza, al centro in questi anni di molte iniziative.
Di Consiglio nasceva il 10 giugno del 1921, esattamente un secolo fa. Alla sua figura, al suo legame con il quartiere ebraico, abbiamo dedicato una delle storie del nostro recente dossier Itinerari su Pagine Ebraiche: nostra guida lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, storico della Fondazione e coautore con Maurizio Molinari del libro Duello nel ghetto.
“Per ripercorrere le strade del Moretto – spiegava lo studioso – partirei da via di Sant’Angelo in Pescheria. È la strada in cui era nascosto, la sua base in quei giorni difficili”.
La tappa successiva dell’itinerario è molto vicina: via dei Delfini. Là abitava Luigi Roselli, il fascista stretto collaboratore dei nazisti che fu il primo nemico del Moretto. L’espediente per avere informazioni sul suo conto, racconta Osti Guerrazzi, fu quello di far innamorare la nipote Annida. Una finta però: il suo cuore apparteneva in realtà alla bella Ada, futura moglie e compagna di vita. Il Moretto è catturato mentre sta per aggregarsi ai partigiani. Non è la prima volta che finisce nelle mani degli aguzzini. A Piazza Farnese era sfuggito alla polizia fascista lanciandosi da una stanza del comando, dotata per fortuna di finestra. Stavolta però dovrà aspettare di più. Iniziano per lui giornate drammatiche tra le celle di via Tasso e quindi in quelle del carcere di Regina Coeli.
Nel maggio del ‘44 scriverà ai suoi cari: “Albergo di Regina Coeli. Via della Lungara. Terzo braccio camera 326. Buongiorno a tutti i miei. Scrivo a tutti, ma particolarmente mi rivolgo ad Angelica perché in ultimo era una seconda mamma. Mi raccomando di non piangere e non abbatterti. È destino del Signore perché l’ho sempre creduto, lo credo e lo crederò anche di più fin quando avrò un filo di vita”. Per poi aggiungere, sul retro: “Arrivederci, perché ritornerò”. Anche in quel caso si dimostrerà più forte e determinato dei suoi carnefici. Non solo non cedendo mai alle loro minacce, alle violenze e alle torture che gli infliggeranno. Ma anche riuscendo a fuggire dal camion che lo sta trasferendo verso un’altra tappa di avvicinamento all’inferno del lager. Si rifugia in montagna, ma la vita lontano dall’azione non è per lui. Sceglie così di tornare a Roma, distinguendosi in una delle battaglie che portano alla Liberazione della città in zona Porta San Paolo. “Doveroso – aggiunge quindi lo storico – recarsi anche in via Marmolata, nel quartiere Testaccio. Lì Moretto combatterà insieme agli americani”. Tra i suoi compiti, in quel delicato e decisivo momento, quello di neutralizzare la minaccia dei cecchini tedeschi. Per chiudere il cerchio è poi necessario andare in corso del Rinascimento, nel palazzo oggi sede dell’archivio di Stato ma dove, qualche tempo, si tenne il processo alla banda, la Cialli Mezzaroma, che in Di Consiglio aveva trovato il più determinato oppositore.