Corretti e correttori
La divisione in tifoserie, spesso assordate dallo stesso rumore che vanno facendo da sole, non aiuta mai a comprendere il disegno degli eventi e l’intelligenza dei fatti. Ovvero, non permette di capire cosa stia per davvero succedendo. Già diverse volte si è parlato su queste pagine, direttamente o indirettamente, di pensieri, affermazioni, condotte, atteggiamenti riconducibili al cosiddetto «politicamente corretto» e alla «cancel culture». Nel primo caso, ci si riferisce ad «un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona» (Enciclopedia Treccani online). La storia del politically correct data alla metà del secolo trascorso quando, a partire dagli ambienti anglosassoni, ed in particolare negli Stati Uniti, in concomitanza sia con eventi mondiali, come la decolonizzazione e poi la successiva contestazione studentesca, sia con le crescenti esigenze legate ad una maggiore coesione sociale interna tra le diverse componenti nazionali, a partire dalle minoranze, si manifestò la necessità di riconoscerne la dignità (e i diritti) anche ricorrendo allo sradicamento dalla lingua corrente di stereotipi e cliché ritenuti offensivi e stigmatizzanti. Per chi aderisce ad una tale impostazione, si tratta «di stabilire regole preliminari per una discussione civile dei problemi, senza la pretesa di risolverli». Per chi invece è giunto a contestarle, le pratiche che si rifanno al politicamente corretto oscillerebbero tra un’ipocrisia del linguaggio (non nominare una cosa, ritenendo che così facendo si sia compiuto un rilevante passo in avanti), sostenuta dal ricorso ad eufemismi che rischiano di contribuire ad occultare il vero problema invece di denunciarlo appieno, fino alla promozione di una vera e propria prassi di omologazione linguistica che, sotto le spoglie della liberazione dai gioghi del pregiudizio espressivo, in realtà introduce nuovi tabù, così come l’interdizione dalla libera manifestazione delle proprie opinioni. La cancel culture, o call-out culture, parimenti, è definita come quell’«atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento» (Vocabolario Treccani online). Nei fatti è un boicottaggio, soprattutto di ordine commerciale, in quanto una tale misura risulta la più punitiva per coloro che ne sono fatti diretti destinatari. Una tale prassi si è estesa nei riguardi delle pubbliche istituzioni, alle quali si è ripetutamente chiesto di procedere ad una revisione del giudizio su personaggi, fatti ed opere del passato, laddove gli uni e le altre possano presentare elementi offensivi della dignità di interi gruppi umani, a partire dal razzismo. Se molti sostenitori del politicamente corretto hanno negato l’esistenza di una cancel culture intesa come prassi abrogazionista, altri hanno invece denunciato il rischio che vengano introdotti nella pubblica discussione «una nuova serie di standard morali e schieramenti politici che tendono a indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico». Detto questo rimane il resto, che non è poco. La prima considerazione è che dietro all’una prassi come all’altra può generarsi una sorta di eterogenesi dei risultati, a prescindere dalla manifesta volontà dei loro sostenitori. Se entrambe puntano al riconoscimento dei gruppi socialmente svantaggiati – e soprattutto nel caso della cosiddetta cancel culture, ad una qualche forma di risarcimento morale e linguistico, sia pure a posteriori – il rischio di trasformare ogni confronto intellettuale in uno scontro basato sulla ricerca della censura altrui è pressoché immediatamente dietro l’angolo. Il nocciolo di certe pratiche culturali, infatti, non è la ricomposizione e il riconoscimento di quanti siano stati svantaggiati ma la punizione di coloro che, a torto o a ragione, sono visti come i responsabili di una tale asimmetria. Di per sé questa cosa, tanto più quando la si proietti nel passato, non garantisce altro che non sia la messa al bando di qualcosa o qualcuno, lasciando invece inalterata la condizione di oggettivo sfavore in cui si trovano i gruppi e le categorie svantaggiate. Una seconda considerazione è l’ossessione per una falsa “par condicio”, che dovrebbe magicamente risolvere le diseguaglianze per il fatto stesso di denunciarne l’esistenza, accompagnando ad essa la politica dei divieti verso tutto ciò che è visto come perturbazione di un nuovo ordine, soprattutto linguistico. Il terzo aspetto è la natura impositiva di tali prassi: quello che si cerca, molto spesso, non è un percorso di analisi e riparazione ma la radicale rimozione di quanto è dichiarato come sgradevole e sgradito, senza un vero e proprio dibattito pubblico. Il più delle volte, infatti, ci si trova in presenza dell’azione di ristretti gruppi di pressione, non importa quanto bene motivati. Poiché costoro rappresenteranno se stessi e i loro interessi, alla resa dei conti, non c’è nessuna garanzia che se ne avvantaggino pienamente anche quelle collettività di cui invece dicono di avere assunto la rappresentanza. In altre parole, la politica dei veti ci restituisce solo un riscontro, quello del radicalismo di coloro che se ne fanno vessilliferi. Un altro passaggio è il fraintendimento che intercorre tra critica radicale e proibizionismo: qualsiasi atto, in sé non solo del tutto legittimo ma spesso indispensabile, di revisione delle condotte presenti e trascorse, non può poi tradursi in un catechismo del rifiuto. Ancor meno può essere assunto – altrimenti altrettanto acriticamente rispetto a ciò che è contestato – come il nuovo dogma pedagogico di istituzioni e società. La critica culturale, in buona sostanza, non può sostituirsi al conflitto politico. Ovvero, l’una è parte dell’altro e viceversa. Altrimenti, l’una e l’altro rischiano di rivelarsi nella loro nuda incongruità: la prima si trasforma in intolleranza nel nome dell’inclusione; il secondo esprime la saccenza, la presunzione e la protervia degli insipienti.
Claudio Vercelli