L’iniziativa editoriale
a 20 anni dalla morte
Mario Lattes, l’apolide irregolare

Era ora che i suoi scritti fossero riuniti in un cofanetto che contiene tutta la sua produzione artistico letteraria, poetica, giornalistica e intellettuale. Perché, fino a poco tempo fa, trovare qualcosa di Mario Lattes era difficile e faticoso. E invece Olschki editore ha pubblicato “Opere di Mario Lattes”, tre preziosi volumi, frutto di anni di studio: oltre 1500 pagine che contengono tutti gli scritti dell’artista, comprese due lavori teatrali, e anche tutti gli inediti, oltre alla sua tesi di laurea. Una ricerca immensa, sterminata, meravigliosamente documentata grazie a un’edizione diretta da Giovanni Barberi Squarotti e da Mariarosa Masoero. Questi volumi hanno un duplice significato: risarcire, da un lato, un artista tra i più irregolari e inquieti del secondo Novecento che, senza la Fondazione Bottari Lattes, avrebbe rischiato di cadere nel dimenticatoio e porre la sua figura, dall’altro, in maniera completa ed esaustiva.
Mario Lattes, nipote di Simone Lattes che nel 1893 aveva fondato a Torino la Lattes Editori, è in effetti una delle figure più complesse e particolari che si sono mosse sulla scena culturale di quegli anni: pittore e poeta, scrittore e polemista, animatore culturale e intellettuale schivo, fa dell’arte la sua vera ragione di vita. Di romanzi ne scrive sei e sono tutti bellissimi, di ispirazione autobiografica, come Il borghese di ventura che Einaudi pubblica nella collana dei Coralli diretta da Italo Calvino, un lavoro potentissimo: è la storia di un ebreo che, durante le leggi razziste, fugge unendosi alle truppe alleate in qualità di interprete. E in questo romanzo, come negli altri suoi romanzi, a colpire non è solo la vicenda ma l’uso della lingua, il modulo narrativo che capovolge il punto di vista del lettore: Lattes usa la parola come fosse colore, pennella la pagina, a volte la intinge di cupezza, a volte la irradia di umorismo. Una specie di flusso di coscienza che va a dritto per oltre 150 pagine senza a capo, ma un flusso di coscienza ordinato. Ebraico, verrebbe voglia di dire. Perché Lattes lo è anche quando scrive e le sue parole sono quindi apolidi, trovano forma e posa soltanto nel momento in cui vengono espresse, la loro patria nella ricerca continua di una storia e che diventa stile. Ed è un discorso, questo, che vale anche per tutti gli altri suoi scritti: La stanza dei giochi (il primo romanzo che Lattes dirà di voler abiurare), Le notti nere, L’incendio del Regio, L’Amore è niente e il Castello d’acqua (uscito postumo).
C’è da dire che forse un miracolo artistico come quello di Lattes poteva essere dipanato solo in quella Torino. Nella città sabauda che era stata massacrata durante la Seconda guerra mondiale e che stava riprendendo in mano le proprie redini. In quegli anni Primo Levi aveva indagato – e fatto esplodere – le atrocità nazifasciste con Se questo è un uomo. E la comunità ebraica torinese – che annoverava fior di intellettuali e studiosi, critici e insegnanti – era inserita dentro un contesto europeo. La parabola artistica di Lattes è tuttavia irregolare, forse come Barberi Squarotti perché “è il suo apparire (…) una ricerca mai esaurita, una ricerca di sé come scrittore, un cantiere che non si è mai chiuso, un work in progress che negli anni si dirama e sperimenta possibilità diverse nella direzione del romanzo, del racconto, della lirica, del teatro, della saggistica, dell’elzeviro”. Ed è curioso – per lo meno per chi scrive – che la figura di Lattes ricordi l’altra grande figura della narrativa polacca: Bruno Schulz, nato da una famiglia di ebrei della Galizia, anche lui scrittore, anche lui pittore e anche lui critico letterario, padre della prosa in lingua polacca. Così come Lattes illustrava spesso i suoi romanzi con le copertine dei suoi lavori – e in “Opere” ci sono, per fortuna, 48 tavole – anche Schulz inseriva disegni nei suoi romanzi. E pittore non lo era anche l’altro grande scrittore ebreo che qualche anno prima era nato – ma tu guarda il caso – proprio a Torino? Carlo Levi, anche lui con una parabola per certi versi simile a Lattes, tenuto conto del periodo storico del nazifascismo, fu uno dei grandi irregolari della scena artistica. Ecco, sì: irregolare. Quella Torino dava natali a personaggi fuori dagli schemi, gente inquieta che rispondeva alle angherie e ai soprusi delle barbiere prendendo carta e penna per raccontare oppure pennello e tela per dipingere. E spesso le due attività andavano assieme, si parlavano tra di loro, come accadeva anche per altri scrittori che ebrei non erano, come nel caso del viareggino Lorenzo Viani – l’unico espressionista che abbiamo mai avuto in Italia – e del modenese Antonio Delfini, una delle figure più geniali del secondo Novecento, talmente amico di Carlo Levi da essersi ritratto con lui in una tela – ora esposta a Matera – durante il loro periodo fiorentino. A sua volta amico di Mario Pannunzio, col quale Lattes aveva collaborato scrivendo racconti.
Si diceva di Lattes, è vero. Ma il punto è anche questo. È che la sua figura – e finalmente questo cofanetto lo svela per quello che è, mettendo in fila date e fatti della sua vita – è una di quelle che hanno fatto grande il Novecento italiano. Di più: la prosa di Lattes ha innovato lo stile del Novecento e si porta in dote un altro enorme pregio. È una lingua viva dentro una scrittura potente. I suoi romanzi andrebbero letti per la sua capacità di ordire una trama di immagini che sfonda nel suono, nella parola che dice senza dire, nell’improvviso mutamento di prospettiva che è continuo, quasi sorprendente. “Avevo pochi libri e la voglia di scriverne io. Invece mi misi a dipingere. Sarà che, per mancanza di sicurezza, una cosa voglio vederla tutta assieme – dice Lattes in un’autopresentazione del 1971 -, non dover voltar pagina che confonde e lascia le spalle scoperte: voglio tutto sott’occhio tutto in una volta”. Ed è però questo che succede quando si ha la fortuna di leggere Lattes: vedere tutto in una volta, rimanendo a spalle scoperte. Il che accade soltanto quando si ha a che fare coi grandi scrittori.
Simone Innocenti, Pagine Ebraiche giugno 2021
(15 giugno 2021)