Periscopio – Il mosaico di Pantaleone
Nel mio intervento di mercoledì scorso ho affrontato il problema della presunta influenza che potrebbe avere esercitato su Dante Immanuel Romano, il compositore ebreo autore del poema “L’inferno e il paradiso”, nel quale, proprio come nella Commedia, è immaginato un viaggio rivelatore nell’aldilà. Anche in questa composizione il viaggiatore è accompagnato da una guida, di nome Daniele, che, secondo alcuni, raffigurerebbe proprio Dante, a cui Immanuel avrebbe voluto così rendere omaggio. Si è supposto che i due si sarebbero conosciuti e frequentati, ma di ciò non c’è alcuna prova, così come del fatto che uno dei due abbia ricavato dall’altro l’idea della perlustrazione del mondo ultraterreno.
Avevo detto che avrei provato ad avanzare una risposta al quesito accostando l’eventuale debito di Dante verso Immanuel a un altro nesso di derivazione che è stato ipotizzato, nei confronti di un’opera straordinaria, realizzata da un sommo artista del Medio Evo, e terminata esattamente un secolo prima della nascita di Alighieri. Mi riferisco al grande mosaico che ricopre le tre navate della Cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto, commissionato al monaco Pantaleone dal vescovo di Otranto, e terminato nel 1165. Il mosaico – ancora in ottimo stato di conservazione (anche se mi è sempre sembrato assurdo che ci facciano camminare la gente sopra) -, com’è noto, rappresenta una formidabile sintesi della storia universale, nella quale molti dei principali protagonisti trovano la loro collocazione, in un gigantesco albero della vita, posato sulla groppa di due possenti elefanti, accanto a una molteplicità di animali vari, reali (tori, cervi, cavalli, cinghiali, lonze, leviatani, dromedari, leopardi, antilopi, arieti, asini…) e fantastici (unicorni, sirene, centauri, draghi, grifoni…), in una rappresentazione visiva di incredibile forza evocativa, che non ha paragoni con l’arte figurativa di tutti i tempi.
La scelta dei personaggi e i loro nessi di collegamento sono stati oggetto di innumerevoli studi, e ancora oggi presentano molti problemi irrisolti. Quel che è certo è che Pantaleone si rivela un attentissimo conoscitore ed esegeta della storia dell’antico Israele, e sorprende il fatto che, accanto a molti protagonisti della Bibbia ebraica (Adamo, Caino, Abele, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, la regina di Saba, re Salomone, Sansone, Giona…), e ad altri personaggi non biblici, storici e mitologici (come la dea Diana, Alessandro Magno, Orlando, re Artù), manchi invece qualsiasi riferimento al Nuovo Testamento. Com’è possibile che in una chiesa cattolica ci sia solo la storia d’Israele, e non quella cristiana? È la stessa domanda che è stata sollevata a proposito della cd. Lex Dei, operetta giuridico-religiosa medievale, di ignoto autore, in cui le mitzvòt mosaiche vengono comparate con le leggi dei giuristi e degli imperatori romani: anche per essa, la mancata citazione di brani neotestamentari ha fatto pensare (nonostante molti dubbi) a un autore ebreo, magari convertito al cristianesimo.
Per il mosaico di Otranto, riguardo a tale assenza, è stato ipotizzato che non sarebbe sembrato rispettoso fare calpestare dai fedeli le immagini di Gesù, Maria, degli apostoli e dei santi, ma si tratta di una spiegazione che non mi convince. Se il fatto che le figure andassero sotto i piedi dei frequentatori fosse stato considerato una mancanza di rispetto, il mosaico non sarebbe proprio stato realizzato, Pantaleone non intendeva certo offendere i patriarchi. Forse si trattava di un cripto-giudeo? L’idea non si può escludere, anche se l’opera fu commissionata e accettata dalla Chiesa. Non sorprenderebbe, però, se essa fosse stata accusata di ‘ebraicità’, o di eresia. Il mosaico presenta, infatti, molteplici, evidenti richiami, oltre che all’ebraismo – sono riscontrabili diversi riferimenti esoterici poi confluiti nella simbologia cabalistica -, alla mistica islamica, oltre che al politeismo e al teriomorfismo pagani. Pare che esso fosse considerato tappa obbligatoria di passaggio per i crociati in rotta verso la Terra Santa, ma, se ciò è vero, i suoi contenuti non sembrerebbero i più adatti a rinvigorire la fede dei liberatori del Santo Sepolcro, in quanto avrebbero potuto, anzi, indurre in confusione. Come mai l’opera di Pantaelone non è stata condannata come eretica?
Se ciò non è accaduto, e se il mosaico non è stato distrutto, ciò si deve, secondo me, essenzialmente a due ragioni: la prima è l’eccezionale valore artistico dell’opera, famosissima già prima che fosse terminata. Ci sarebbe voluto davvero un bel coraggio per ordinare di eliminarla. La seconda è che rimuovere un mosaico, e di quella estensione, non sarebbe stato facile. Magari, lo si sarebbe potuto coprire di altri tasselli, come fu fatto dai turchi per le immagini musive di Santa Sofia, a Costantinopoli. Ma anche questo avrebbe richiesto un certo lavoro. Non c’è notizia che qualcuno ci abbia provato, anche se è molto verosimile che l’idea a qualcuno sua venuta. Ma, certo, se l’albero della vita, anziché un mosaico, fosse stato una serie di pale d’altare, o di affreschi, o un codice miniato, avrebbe corso più rischi.
In una conferenza pronunciata nel 1965, poi confluita in un articolato saggio, pubblicato in diverse sedi, mio padre, Bruno Lucrezi, ha cercato di dimostrare, sia pure in chiave di ipotesi, che Dante abbia avuto modo di visionare il mosaico di Pantaleone (anche se non c’è alcuna prova di un suo soggiorno nelle Puglie), e che abbia da esso tratto ispirazione per la Commedia. Molte, infatti, e fortemente significative, sarebbero le analogie tra il grandioso opus tassellatum idruntino (“autentica Bibbia pauperum”) e il poema dantesco: dall’intento enciclopedico allo spirito visionario delle due opere fino a molti specifici particolari, che non riferisco per motivi di spazio. E la plausibilità dell’intuizione di mio padre è stata tenuta in alta considerazione da uno dei maggiori studiosi del mosaico, Monsignor Grazio Gianfreda, che l’ha raccolta e sviluppata nel suo libro (apparso in più edizioni) Suggestioni e analogie tra il Mosaico di Otranto e la Divina Commedia (anche se mio padre ci tenne a precisare che “tra Dante e Pantaleone non c’è di soltanto di mezzo un secolo: c’è un abisso”).
La domanda, posta da Lucrezi e da Gianfreda, riguardo a una possibile influenza di Pantaleone su Dante, è, secondo me, di grande importanza. Ma, nel tentare una risposta, credo che sarebbe utile collegare il quesito a quello dell’eventuale ispirazione che il genio fiorentino potrebbe avere tratto dalla lettura – o, almeno, dalla sommaria conoscenza – del poema di Immanuel Romano. Le due domande, infatti, mi paiono collegate, e una riflessione su di esse potrebbe forse aiutare a formarsi un’idea meno superficiale sul rapporto di Dante con l’ebraismo (e, oltre che con esso, con la mitologia pagana e con l’Islam).
Esprimerò qualche mia considerazione sul punto nel mio intervento della settimana prossima, nel quale concluderò questo argomento di discussione.
Francesco Lucrezi, storico