Leo Strauss, una filosofia in esilio

“Un ortodosso decisamente ateo”. Così nel 1952 da New York Hannah Arendt scrive di Leo Strauss, suo collega alla New School, al vecchio maestro Karl Jaspers, che in Germania ha appena terminato di leggere La critica della religione in Spinoza, che Strauss aveva pubblicato a Berlino nel 1930, libro che inaugurò la sua difficile carriera di “filosofo in esilio”. L’apparente ossimoro della Arendt ben coglieva il nodo centrale di questo raffinatissimo pensatore, che dissimulò il suo ebraismo dietro lo studio dei classici greci e latini (Platone e Senofonte anzitutto) e che, di contro, cercò ostinatamente la filosofia negli classici del pensiero ebraico (Maimonide, Yehudà HaLevi, Moses Mendelssohn) arrivando alla conclusione, a suo giudizio filologicamente certa, della totale inconciliabilità tra la sfera della Torah, ossia Gerusalemme, e la sfera della ricerca razionale, incarnata da Atene. Si tratta di dissidio profondo, che Strauss ha triangolato come rapporto dialettico continuo e inquieto tra filosofia, politica e religione; ma che resta un rapporto fecondo sebbene la modernità tra XIX e XX secolo lo abbia soffocato con lo storicismo, ossia il relativismo interpretativo, che è la ‘bestia nera’ contro cui Strauss ha lottato la sua intera vita, nelle tappe del suo esilio: da Berlino a Parigi, da Londra a New York, e negli anni del ‘successo’ negli Usa da Chicago ad Annapolis. Carlo Altini, storico della filosofia e massima autorità mondiale negli “studi straussiani”, non poteva scegliere titolo migliore per la di lui biografia intellettuale: Una filosofia in esilio (366 pagine, Carocci 2021).
In ‘esilio’ Leo Strauss resta ancor oggi, a ben vedere: più citato che studiato, s’è visto strattonato a destra (politicamente) e a sinistra (accademicamente) e la sua influenza, specie negli Stati Uniti, è stata mitizzata da estimatori e detrattori alla pari. Ma poco noto Strauss resta soprattutto in ambito ebraico, dove è assai meno frequentato dei colleghi Scholem e Arendt, Loewith e Kojéve, Jonas e Fackenheim, nonostante il suo nome sia inoccultabile: fervido sionista negli anni giovanili, sviluppò una critica al sionismo in nome di un ‘tradizionalismo’ ebraico che giustificava, ad occhi di alcuni, il titolo di ‘ortodosso’. La sua ortodossia però era incrinata da uno scetticismo (appreso dai filosofi arabi ed ebrei medievali) che lo rendeva sospettoso verso ogni teoria politica moderna, non importa quale causa propugnasse. La sua critica a Theodor Herzl, non meno che ad Achad Ha’am e Martin Buber, consisteva nel ritenere la soluzione sionista del ‘dramma ebraico’ una risposta basata più sul rifiuto dell’antisemitismo nonché su modelli romantico-borghesi, piuttosto che sulle vere radici dell’ebraismo, sulla sua fondazione religiosa, e sul suo statuto teologico-politico.
E qui riaffiora, quale imprescindibile punto di partenza, il confronto con Spinoza, l’ex marrano che, sebbene scomunicato dalla sinagoga portoghese di Amsterdam, rappresenta il vero spartiacque tra età antica ed evo moderno, tra il medioevo ebraico e quegli ebrei illuministi che hanno preferito la ragione alla fede, i salotti berlinesi all’osservanza della Torah. Obiezione: ma se Strauss non era un “osservante della Torà”, la sua critica non è contraddittoria? Lo è, biograficamente, come se Strauss si trovasse in esilio anche da se stesso; ma non lo è razionalmente, perché la sua analisi è sempre lucida, aderente alla storia ma non subalterna alla mentalità storicista, la moda moderna di ritenersi superiori agli antichi.
Ecco una delle più importanti chiavi che questa dettagliata biografia ci offre per aprire il mistero della personalità e del pensiero di Leo Strauss: la sua convinzione che i moderni non sono affatto ‘superiori’ in saggezza agli autori antichi; che questi ultimi possono essere studiati e compresi nei loro stessi termini e non filtrati dalla nostra autocomprensione, come se “il lettore capisca un autore antico meglio di quanto tale autore capisse se stesso”. Quasi tutta l’ermeneutica moderna e contemporanea si fonda su questo assunto, che Strauss ha combattuto ‘testi alla mano’. Da qui la sua alterità rispetto al pensiero contemporaneo, fatta salva forse qualche sacca di fenomenologia e di neotomismo. Come si vede, siamo in un coacervo di paradossi. Non ultimo, il fatto biografico che, all’inizio degli anni Trenta, Leo Strauss ha corso il ‘rischio’ di andare a ricoprire la cattedra di filosofia ebraica all’Università ebraica di Gerusalemme (poi assegnata al meno problematico Julius Guttmann, con cui Strauss aveva persino collaborato all’Accademia della Scienza dell’Ebraismo a Berlino). Carlo Altini è abilissimo nell’intrecciare eventi biografici e svolte intellettuali, relazioni amicali e isolamenti accademici, specie all’università di Chicago dove la sua genialità di studioso era associata al suo essere controcorrente, mai in sintonia con il progressismo e il positivismo di cui erano impregnati i dipartimenti americani. Anche lo spirito religioso d’Oltreoceano non gli era congeniale.
Come ben spiega Altini, andando al cuore di tutti i paradossi che rendono così unico e affascinante questo pensatore ebreo-tedesco: “Per Strauss l’ebraismo non è coscienza religiosa, come pretende ogni forma moderna di ‘filosofia ebraica’ o di ‘filosofia della religione’, ma è religione rivelata, di fronte alla quale è necessario mostrare fede e obbedienza. Una fede e un’obbedienza che però il filosofo Strauss – animato da scetticismo zetetico socratico – afferma di non poter garantire”. Ossia di non poter fondare filosoficamente, perché tra filosofia e fede esiste una sfasatura di mezzi e di fini: quando i fini convergono (ad esempio nella ricerca della felicità), i mezzi sono in conflitto, e quando sono i mezzi a convergere (ad esempio nell’esercizio delle virtù), allora sono i fini a divergere. Forse è questa la ragione per cui i grandi autori del mondo antico e medievale, greci o arabi o ebrei che fossero, dissimulavano il proprio vero insegnamento e celavano al volgo (che vuole certezze) ciò che intendevano trasmettere all’élite degli sapienti (che sono in pace con l’inquietudine). Nessuno più di Strauss ne era convinto e, dopo la lettura della sua biografia, ne capiamo meglio anche il perché.
La Guida dei perplessi di Maimonide è l’esempio maggiore di tale “scrittura reticente” ossia dell’arte antica della dissimulazione della verità, che viene rivelata tra le righe proprio mentre la si nasconde in superficie. “Agendo con cautela, il Maimonide di Strauss si muove in uno spazio a metà tra insegnamento orale e insegnamento scritto, tra dottrina esoterica [rivolta a tutti] e dottrina esoterica [rivolta alle élites], senza trasgredire il divieto, imposto dalla Legge, di comunicare pubblicamente i segreti della Torà”. Il tutto con cautela. Caute, in latino, non era il moto di Spinoza?
Massimo Giuliani, Pagine Ebraiche giugno 2021
(17 giugno 2021)