L’intervista all’esperto Raz Zimmt
“L’Iran rimarrà in mano a Khamenei
Possibile intesa a breve sul nucleare”

“Anche a costo di minare ulteriormente la fiducia dei cittadini e il principio della rappresentanza popolare, la Guida Suprema Ali Khamenei e i suoi fedelissimi sono impegnati a mantenere il controllo sui diversi centri di potere”. L’ayatollah e i suoi seguaci non vogliono lasciare nessuno spazio vuoto, spiega a Pagine Ebraiche Raz Zimmt, analista israeliano esperto di Iran. Preparano il terreno a quando Khamenei non ci sarà più e sgomberano il campo da qualsiasi avversario futuro. Per questo la lista dei candidati alle prossime elezioni presidenziali in Iran, fissate per domani, si è assottigliata sempre di più. Tra i sette ammessi dal Consiglio dei Guardiani vi era solamente un politico di area “riformista”. Ma il 16 giugno Mohsen Mehralizadeh ha annunciato di essersi ritirato. E la strada per il grande favorito, Ebrahim Raisi, capo dell’apparato giudiziario, sembra spianata. In un’atmosfera però di grande disillusione da parte degli iraniani, che speravano con Rohani in un miglioramento delle proprio condizioni. Con il cambio al vertice, poco cambierà per Israele, evidenzia Zimmt, perché comunque a tirare le fila sarà sempre Khamenei. “Sarà lui a decidere ad esempio se si potrà siglare un accordo sul nucleare” evidenzia l’esperto israeliano, che si occupa di Iran per il prestigioso Institute for national security studies. 

Qual è l’atmosfera che si respira in Iran alla vigilia di queste elezioni?
Fondamentalmente c’è un senso di disperazione. La gente non vede davvero il senso di andare a votare. Le elezioni lì non sono mai state pienamente libere e democratiche. Ma direi che questa è la prima volta in cui non c’è alcun tipo di competizione. Hanno deciso di squalificare non solo la maggior parte dei candidati, ma anche funzionari iraniani conservatori di alto rango come Ali Larijani. Di fatto hanno spianato la strada a Raisi verso la vittoria. Tutto questo aumenta il senso di frustrazione dei cittadini iraniani, già profondamente delusi dalla cattiva gestione dell’attuale presidente Rohani.

Ci sono segnali che questa frustrazione si trasformi in manifestazioni contro il governo?
No. In realtà, non prevedo manifestazioni. La situazione è diversa dal 2009, quando c’era un senso di speranza e aspettative che qualcosa potesse cambiare. La gente aveva votato per i riformisti e, usciti i risultati, si era accorta delle manipolazioni elettorali. La speranza allora si era trasformata in grandi proteste di piazza. Oggi, purtroppo, non ci sono più aspettative o speranze. L’obiettivo delle manifestazioni, che ci sono, non è più il cambio del processo politico, ma il miglioramento della situazione economica. E penso che manifestazioni di questo tipo, vista la condizione del paese, proseguiranno.

Con un nuovo presidente cambierà qualcosa sul fronte delle trattative per trovare con gli Stati Uniti una nuova intesa sul nucleare?
Le decisioni riguardanti la politica estera dell’Iran in generale e la sua politica nucleare in particolare non sono decise dal presidente. Piuttosto sono in mano alla Guida Suprema Khamenei e al Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale. Quindi, se Khamenei vuole davvero tornare alla via del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), non ha molta importanza chi sia il presidente. Quello che potrebbe cambiare un po’ è lo stile dei negoziati. E poi penso che ci siano due scenari.

Quali?
Il primo è che l’Iran e i P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, più la Germania) si concentreranno per raggiungere un accordo a Vienna per l’inizio di agosto. Prima che il nuovo presidente entri in carica o in concomitanza con il suo arrivo. In questo caso anche il nuovo entrante, qualsiasi sia la sua posizione sull’intesa, non avrà alternative che rispettarla. E scaricherà le responsabilità su Rohani.
Il secondo scenario è che non si raggiunga l’intesa a Vienna. In questo caso, cambierà il team di negoziatori, cambierà il ministro degli Esteri e probabilmente sarà tutto più complicato da posizioni più dure e conservatrici.

Quale dei due scenari vede più probabile?
Il primo. Credo che sia più probabile che si possa raggiungere un’intesa nelle prossime due settimane.

Sarebbe un fatto positivo per Israele?
Dobbiamo pensare a qual è il modo migliore per ritardare la nuclearizzazione dell’Iran. Guardiamo alle tre opzioni principali sul tavolo: una è l’opzione militare. La seconda sono le cosiddette azioni segrete, come quelle che abbiamo visto negli ultimi mesi a Natanz. E la terza è l’opzione diplomatica, ovvero ottenere l’intesa sul nucleare (JCPOA). Credo che nonostante tutte le sue mancanze, e ne ha molte, l’accordo precedente abbia permesso di ritardare la corsa al nucleare iraniana di 10-15 anni. Un lasso di tempo significativo per Israele. Per questo ero contrario al ritiro deciso da Trump. Non poteva portare ad un accordo migliore, ma solo spingere l’Iran a proseguire nelle sue politiche per accelerare le proprie capacità nucleari. Cosa che è accaduta. Per questo sono favorevole e credo che sia positivo per Israele un ritorno all’intesa nucleare. Anche se non è la migliore. Si potrà migliorare con il tempo, sulla base di incentivi e promesse di cancellare le sanzioni.

Israele ha un nuovo governo. Cambia qualcosa sul fronte della gestione della minaccia iraniana?
Dobbiamo separare la questione regionale e la questione nucleare. Rispetto alla prima, nulla cambierà. Continueranno gli sforzi di Israele contro l’Iran sul territorio siriano, contro il suo tentativo di fornire armi a Hezbollah. Continueremo a colpire per limitare ogni sforzo di Teheran di rafforzarsi in Siria e in Libano.
Ma penso, e certamente lo spero, che Israele debba cambiare strategia verso gli Stati Uniti quando si tratta della questione nucleare. L’ex Primo ministro Benjamin Netanyahu era molto contrario al ritorno all’intesa. Non era pronto a discutere nulla con gli Stati Uniti in merito. La sua posizione era: non si torna al JCPOA. Punto.
Credo che invece la strada sia di costruire un dialogo, perché se gli Stati Uniti vogliono siglare un accordo, lo faranno. Per cui noi dobbiamo andare e trattare. E spiegare quali sono le nostre esigenze e preoccupazioni agli Usa. Ci sono molti interessi israeliani che possono essere preservati anche con il ritorno all’intesa nucleare.

Daniel Reichel