Storie di Libia
Penina Meghnagi Solomon

Penina, nata a Tripoli, ebrea di Libia da molte generazioni. Il padre era spedizioniere e si occupava di import ed export ed era riconosciuto campione di nuoto della Libia. La madre, casalinga, si prendeva cura della famiglia pur potendo disporre di una persona che accudiva la casa. Amava cucire, ricamare e ricevere ospiti. Tutta la famiglia rispettava le regole di una tranquilla convivenza fatta di grande attenzione verso l’inevitabile intolleranza di alcuni residenti. Gli ebrei di Libia evitavano di assembrarsi con altri ebrei per non provocare la suscettibilità di libici di strette vedute ma vivevano in pace nel rispetto della fede e delle tradizioni. Nel 1963 il padre era venuto a mancare, i figli più piccoli avevano solo due o tre anni, e la madre, seppur a fatica, riusciva a mantenere la famiglia. Malgrado le tante difficoltà di vivere in un paese arabo l’esistenza scorreva piuttosto serenamente per i più giovani, protetti nell’illusione di poter godere di serenità.
Nel 1967, all’improvviso, il mondo intorno a loro non fu più lo stesso. Costretti a nascondersi, assistevano inermi agli incendi appiccati ai negozi di proprietà degli ebrei e alla confisca dei loro beni. Fuggendo a nascondersi per evitare le aggressioni dei loro concittadini musulmani, lungo le strade, pronti ad ucciderli. Così furono costretti a scappare, con solo i documenti, per non essere uccisi. Fino a pochi giorni prima Penina era serena, pensava al mare, alle vacanze, al futuro di studio a Oxford. All’improvviso lasciò tutto: la sua bambola, la scuola, gli amici, la tartaruga in veranda, la sua casa. La sua famiglia si divise nel mondo. Italia, Canada, Stati Uniti, Israele. Penina non ricorda più i momenti tragici vissuti, probabilmente per la sua personale reazione al trauma. Tenne però un diario di quei giorni e lo sfoglia ancora oggi per ricordare e raccontare la sua storia ai nipoti. Con sua sorella Denis e la mamma si rimboccarono le maniche e senza scoraggiarsi per la violenza subita reagirono con forza per far crescere le generazioni successive in pace e con la fiducia nel futuro, mantenendo vivo il ricordo di un passato difficile ma senza piangersi addosso.
Come tanti ebrei di Libia la sua famiglia cucina i piatti tradizionali libici e festeggia ancora come erano soliti fare a Tripoli. Penina non considera l’intero popolo libico colpevole dell’accaduto. Sheih, un amico di famiglia musulmano, li nascose salvando loro la vita e una amica musulmana della mamma custodì e portò loro l’argento, un anno dopo, in Italia.
Non desidera tornare in Libia perché ritiene che lì non ci sia più nulla per lei, e considera inutile sperare di riavere i beni della sua famiglia. Inoltre non ci sono più le tombe dei suoi cari su cui poter pregare. Autostrade e palazzi sono stati edificati ove prima erano i cimiteri. Lei spera che arabi pietosi abbiano gettato in mare le loro ossa e alla commemorazione si reca al mare con i familiari e getta petali di fiori. La Libia secondo lei vive dentro il cuore degli ebrei di Libia, in un piatto di couscous o di hraimi, in un gioiello tramandato dalla nonna o in un caffè con fiori di arancia. Ci dice: “Raccontiamo la nostra storia per insegnare e tramandare ai giovani la consapevolezza di appartenere ad un grande popolo unito dalla fede e non da confini, cittadini del mondo ma sempre legati alle nostre tradizioni. La mia esperienza e il trauma mi hanno portato ad avere due motti: ‘Celebriamo il presente’ e ‘Puoi essere certo di dove ti svegli, ma mai di dove andrai dormire’: siamo ebrei e non ci diamo mai per vinti! Penso che per noi solo in Israele sia possibile sentirci sicuri e liberi. Sarei felice se la Libia diventasse un paese libero e aperto e rispettasse il ricordo della nostra gente come parte di duemila anni della storia libica. Sarebbe giusto anche per le tante persone di valore musulmane, che meritano di vivere in pace. Un monumento commemorativo dei pogrom dedicato allo sterminio di ebrei innocenti sarebbe un giusto monito per il futuro: un grande gesto di tolleranza e di riconoscimento verso il nostro popolo”.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(21 giugno 2021)