Ghivat Shaul
La vasta collina è ricoperta per intero da un manto di pietre tombali che, sovrapposte in ripiani creati a diverse altezze, fronteggiano i monti boscosi intorno a Gerusalemme e si protendono sull’autostrada sottostante, rigurgitante di traffico ininterrotto. L’omaggio a una cara cugina israeliana da poco scomparsa ci porta a scoprire il Cimitero Har HaMenuchot, fondato nel 1951 a Ghivat Shaul, quartiere di Yerushalayim. Percorrendo la discesa sinuosa verso il sepolcro che cerchiamo, una sensazione di bellezza intensa, profonda ci avvolge e ci spinge a riflettere. Quelle migliaia di tombe, di nomi, di date, di scritte in caratteri ebraici ma anche cirillici e latini, allineate l’una all’altra, lanciate contro il cielo di Gerusalemme in mezzo a dense foreste e affacciate a picco sulla vita pulsante di oggi sottolineano un contrasto evidente ma anche una paradossale continuità: il passato che silenzioso si sporge sull’intenso presente. È un coro di tacite voci, quello che il visitatore partecipe riesce ad ascoltare tra queste pietre, un coro che racconta settanta anni di vita israeliana; implicita risposta – radicata e tangibile – a chi per fini politici intende mettere in dubbio il legame inestricabile del mondo ebraico con Gerusalemme.
Certo, in una considerazione del genere è la mia identità ebraica a farsi sentire con orgoglio, spontaneo e quasi istintivo. Ma forse la conclusione sarebbe stata analoga e opposta davanti a un cimitero musulmano di Gerusalemme est: ne avrei arguito le altrettanto salde radici islamiche. E qualcosa di simile accadrebbe probabilmente di fronte a un cimitero cristiano di questa città che avvince a sé chi la abita. Ciò non fa che ribadire il carattere perennemente universale di Gerusalemme, capitale indiscutibile (anche se discussa) di Israele, ma anche luogo centrale dell’anima di tre diverse appartenenze.
David Sorani
(22 giugno 2021)