L’epidemia e la lezione del 1630
“Una risposta nel segno dell’unità”

“Ne moriva uno, doi, tre al giorno”.
Undici settembre 1630, la peste letterariamente eternata da Manzoni nei Promessi Sposi entra anche nel ghetto di Padova. Avraham Catalano, rabbino e personalità insigne del tempo, ci ha lasciato una testimonianza vivida di quei giorni. Un manoscritto in italiano, che ha viaggiato per migliaia di chilometri ed è stato ritrovato presso la Columbia University.
Rebecca Locci ha scelto di farne il perno della sua tesi di laurea magistrale in Scienze storiche, discussa nelle scorse ore presso la gloriosa Università patavina.
“La gestione della peste del 1631 nel ghetto di Padova attraverso la cronaca di Avraham Catalano”, premiato con il voto più alto, 110 e lode, è anche il primo tentativo di raccontare la vita, in tutte le sue sfumature, di questa grande figura. A partire dal confronto con quella prova estrema. Spunti di riflessione preziosi nel momento in cui l’umanità intera affronta una nuova epidemia, con la speranza (anche se non, ovviamente, la certezza) di aver messo il peggio alle spalle.
Al centro anche l’importante contributo dei medici ebrei, in prima linea contro il morbo come i loro colleghi cristiani. Figure “ponte” con un proprio percorso di formazione sia in yeshivah sia nelle aule dell’Università, una delle poche in Europa e l’unica in Italia a non chiuder loro le porte in faccia nonostante la separazione abitativa sancita all’inizio del secolo (1601). Locci si focalizza su quattro figure, i laureati dell’anno accademico 1623-24. Simbolo di una generazione “fedele alle proprie tradizioni” ma al tempo stesso legata in modo indissolubile alla città e coinvolta nel medesimo appassionato sforzo contro “una delle più violente ondate di peste dell’epoca moderna”.
L’archivio di Stato e quello comunitario, università e biblioteche. Locci si è confrontata con diverse fonti, facendo risaltare vari aspetti inediti sulla vita di Catalano e più in generale sui mesi della peste. Spazio per le problematiche affrontate, ma anche per le capacità di gestione e mobilitazione. Che si rivelarono notevoli.
“I quattro capi del Ghetto, poi diventati in corso d’opera cinque, furono gli artefici di un clima di profonda coesione interna”, sottolinea al riguardo Locci. Abili anche ad alimentare un “rapporto di reciproca fiducia con le autorità cittadine”.
L’autorevole Maestro fu anche un pioniere. Nell’elaborato si racconta infatti di una riunione con i quattro capi, svoltasi in regime di quarantena. Un dialogo da abitazione ad abitazione, con le finestre di entrambe spalancate. “È stato un precursore. Ha anticipato di quattro secoli le videoconferenze”, sorride Locci.

(Nell’immagine in alto una delle pagine del manoscritto del rabbino Avraham Catalano; in basso Rebecca Locci festeggia la laurea)