Discriminare e proibire
Non è che ci sia poi troppo da stupirsi nel merito delle “ingerenze” che la Santa Sede avrebbe esercitato rispetto all’iter parlamentare del disegno di legge Zan, che intende punire, in quanto reati, le offese alle identità di genere e ai profili sessuali come tali. Poiché se da un lato il Vaticano, in quanto Stato tra gli Stati, ricorre alla politica come sua prerogativa sovrana, dall’altro si sa come da sempre consideri l’Italia in quanto territorio elettivo, sul quale esercitare una sorta di magistero rafforzato. Inutile quindi squadernare vecchie ma mai sopite polemiche. Il ddl Zan è peraltro oggetto di una lunga discussione, non solo nel merito del contenuto dei suoi articoli ma, in prospettiva, rispetto al più ampio margine di riflessioni che sollecita sul rapporto tra identità personale, suo riconoscimento giuridico e sociale, rispetto dell’individuo ma anche criteri per la sanzione delle discriminazioni in materia. La proposta Zan, infatti, prevede che all’articolo 604 bis del codice penale (relativo ai reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa), alla già esistente formulazione (che afferma: «è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»), si aggiunga ancora: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità». A tale enunciazione si accompagna poi la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, laddove il testo della legge statuisce: «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Ora, da un punto di vista dei principi, risulta francamente difficile opporre troppe obiezioni rispetto ad una norma che dovrebbe semplicemente recepire quella che è l’auspicabile evoluzione del pensiero collettivo e, con esso, delle condotte sociali. Si tratta di un orizzonte di recepimento della liceità, come di esplicita legittimazione, della varietà dei modi di essere e, soprattutto, di viversi gli uni accanto agli altri. Più complesso, invece, è ancora una volta formulare il rapporto tra violazione dei diritti di identità e loro repressione per via penale. Non si tratta di un eccesso di cautela ma di una più generale riflessione sul merito di quali siano i percorsi collettivi, quindi anche quelli normativi, maggiormente idonei non solo per tutelare ma anche per favorire lo sviluppo del pluralismo sociale. Per inverso: proprio perché si evoca il diritto alle identità plurime, se si innesca un sistema sanzionatorio, soprattutto di natura penale, dove finisce la «libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte» (di per sé incentivate) e dove invece inizia il campo della perseguibilità, ossia la determinazione, per via di parole e affermazioni, di un «concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti»? Quali sono le soglie, a volte mutevoli, tra le une cose e le altre? Dove, come, quando (eventualmente anche perché) un certo dire o affermare può costituire invettiva, insulto e quindi offesa di natura discriminatoria, che pertanto porta ad atti ed esercizi di esclusione e persecuzione, come tale da punire giuridicamente? Le risposte parrebbero essere relativamente agevoli nonché immediatamente convincenti. Tuttavia, sussiste un problema di fondo, che rimanda all’affermarsi nelle nostre società di una logica tendenzialmente proibizionista. È tale quella condotta sociale, sancita da norme di legge vincolanti, che vieta manifestazioni di pensiero e condotte basate sul ricorso a comportamenti che sono considerati come socialmente riprovevoli. In questo caso poiché lesivi della dignità delle persone che ne sono fatte destinatarie. Il punto è precisamente questo: il divieto, è un efficace strumento di contrasto dei processi discriminatori? Non si tratta di una questione astratta o di lana caprina. Rimanda semmai non tanto a generici principi di «libertà» (di parola, di espressione, di manifestazione del pensiero, tutti elementi che non sussistono da sé qualora non si accompagnino alla responsabilità sociale per ciò che si dice e si fa) ma di concreta equità nelle relazioni interpersonali e sociali. Poiché le discriminazioni sono il risultato non solo di “cattivi pensieri” e di pessime parole ma cristallizzano differenziali di potere dei quali queste costituiscono una sorta di suggello ideologico. Agire sui sistemi di discriminazione implica interrogarsi, e poi intervenire, su un tale nodo, che è tanto complesso quanto ineludibile. Altrimenti si corre il rischio di creare una mera zona di interdizione linguistica – tale poiché fondata per l’appunto su un divieto formale – senza che intervengano concrete politiche di riequilibrio e di riconoscimento contro le asimmetrie violente. In altre parole, nel qual caso si risponderebbe alla cristallizzazione di pensiero che sta dietro al pregiudizio con un sistema sanzionatorio che, a sua volta, produce non solo il tabù della impronunciabilità (una condizione che invita molti, prima o poi, a metterlo in discussione) ma anche un sottile e non meno insidioso feticcio, quel totem che trasforma le identità, individuali e di gruppo, in identitarismi. Ovvero, in una sorta di autoaffermazione che prescinde dal bisogno di comprendere gli altri, pensando erroneamente che si sia al riparo, noi stessi, da pregiudizi di sorta, facendo quindi corrispondere il perimetro dell’umanità intera con quello, per l’appunto, di ciò che consideriamo essere la nostra «identità».
Claudio Vercelli