Il declino degli intellettuali
Oltre ai politici, in Italia sembra che anche gli intellettuali (o chi ne fa le veci) siano scomparsi. Ma certo non è una novità, da molto se ne dibatte. Un intellettuale è colui che avanza delle domande, che esercita la ragione attraverso una sorta di distacco da ciò che lo circonda, che s’interroga e mette in dubbio tutto ciò che agli altri appare ovvio. Sperimenta e raccoglie nuove prospettive, nuovi sguardi e categorie interpretative per comprendere la società nei suoi meandri, sempre oltre le narrative correnti. Un intellettuale non darà mai risposte semplici a questioni complesse, non è neppure come sosteneva Elio Vittorini “il pifferaio della rivoluzione”, quindi strumento di partito o di una data ideologia.
La “fiera” risposta data da Michela Murgia ad un’amica (?) che le chiedeva chiarimenti a proposito della questione israelo-palestinese, oltre ad essere delirante, ha ben poco di intellettuale. Potrebbe darsi che Michela Murgia non la pensi davvero come Hamas, o almeno spero, però è più semplice e privo di “sfaccettature” affermare di pensarla così. Il pensiero semplice che predilige gli aut/aut è sempre preferibile a tutto ciò che ha in sé delle ambiguità, ma ripeto, non è certo la caratteristica degli intellettuali. Intellettuale non è sinonimo di persona colta la quale tratta unicamente “questioni elevate”, tanto meno di persona onnisciente, anzi, a certe domande può anche essere più saggio non rispondere, o rispondere con un’altra domanda. Il “sapere di non sapere” è la forma più alta di sapienza.
Un concetto affascinante dell’ebraismo è la “Yeridat ha-dorot”, il “declino delle generazioni”, l’idea che nell’arco della storia ebraica le generazioni attuali e successive siano spiritualmente e intellettualmente “inferiori” nello studio della Torah, così che difficilmente è possibile nel presente contestare le decisioni halakiche di rabbini delle epoche precedenti. Talvolta vien da pensare che questo concetto sia estendibile anche al resto della società, non solo al mondo rabbinico. Significherebbe che da ere antiche prossime alla conoscenza e alla verità, saremmo inevitabilmente diretti verso un mondo dominato da oscurità ed ignoranza (nonché ignoranti). In molti pensatori moderni è una teoria ricorrente, per esempio Karl Jaspers espresse questa tesi quando parlò di “era assiale” dell’umanità, quella tra 800 a.C. e il 200 a.C dove si concentrarono grandi filosofi, poeti e profeti. Un rimando questo forse ai testi induisti i quali parlano del periodo attuale, “Kali Yuga” (età del ferro), come un’era oscura caratterizzata da conflitti e ignoranza spirituale.
Ma lungi da me il solito lamento sui “bei tempi andati” e sul declino e l’appiattimento della cultura contemporanea, da qualche parte gli intellettuali si saranno nascosti. Essi scrivono ancora buoni saggi che pochi leggono, o almeno non certo i leader politici (così sembra). Saranno in qualche redazione, o dispersi nei bugigattoli di qualche università di provincia. O in alternativa, svolgono lavori “umili” in qualche stazione ferroviaria o fabbrica come fu per Bohumil Hrabal, peggio se ne troverà qualcuno tra precari e disoccupati. Ma in generale, difficilmente si rapportano con l’alta politica, possiedono profili Instagram, o occupano i salotti televisivi. I loro messaggi non vengono più recapitati e discussi nella sfera pubblica e nel quotidiano. La particolarità degli intellettuali del Novecento pareva invece proprio questa. Nel XXI secolo invece, il confronto di qualche supposto “intellettuale” con i supposti “non intellettuali” è ridotto al banale in puro senso arendtiano “la penso come Hamas”.
Francesco Moises Bassano