Nel nome di nessuno

Inginocchiamenti, asterischi, schwa (dice il saggio: «elemento consonantico trascritto con ə, attribuito alla lingua indeuropea comune, che appare vocalizzato al grado ridotto delle radici e confuso nelle singole lingue indeuropee con ā») e cos’altro. Molto altro, invero. Ossia, regimi di condotta, sistemi di comportamento, elementi di comunicazione, criteri di prescrizione i quali, nel nome del pluralismo – peraltro, come non riconoscersi, in linea di principio, in quest’ultima condizione? – rischiano tuttavia di tagliarne alla radice le sue (tante) ragioni. Riconducendole e riassumendole in una sorta di catechismo delle condotte pubbliche. Sì, l’igiene del linguaggio (che pure necessita se è un criterio di autovalutazione, quello per cui prima di parlare si pensa), qualora sia veicolata inesorabilmente come un sistema di autocensura, quindi un meccanismo anticipatorio – tale in quanto coercitivamente introiettato negli individui nel senso di “non posso dire ciò che altrimenti penso” e quindi legittimato dal consenso delle istituzioni – non costituisce mai un fattore di crescita collettiva bensì di ridefinizione delle relazioni sociali, sempre e comunque secondo un criterio al ribasso. Censura e proibizionismo giocano in tale senso. Comunque la si voglia pensare. Poco ma certo. La questione, va da sé, non sono tanto i buchi, le incongruenze, le inadeguatezze della lingua – la quale esiste proprio perché imperfetta, quindi intrinsecamente evolutiva, ovvero legata alle trasformazioni in atto – quanto soprattutto la generazione di zone di interdizione espressiva. Ben altra cosa, per intenderci, dal continuo rimando alla «libertà di espressione» che dovrebbe escludere gli insulti, le invettive, le scempiaggini, il ricorso al fake. L’interdizione espressiva è semmai quella condizione per la quale ci si limita da se stessi nel dire (e quindi anche nel pensare), poiché altrimenti qualcuno potrebbe rimanere “offeso”, rivalendosi attraverso le norme vigenti. Certa politica delle minoranze, di radice perlopiù anglosassone, non chiede riconoscimento di sé in un contesto pluralista ma disconoscimento dell’altro da sé come nemico inconciliabile. Si tratta di una prassi, culturale e politica, funzionale sia all’aggregazione sociale in gruppi di pressione (per l’accesso alle risorse collettive) sia all’enfatizzazione della dimensione individualista, soprattutto quella in cui il soggetto ama narcisisticamente l’immagine riflessa di se stesso. Qualcosa, beninteso, che si combina benissimo con una società dove l’indice di appartenenza più importante è l’identificazione attraverso il consumo (di brand comunitari, di beni di posizionamento, della stessa lingua che si trasforma in un linguaggio depurato da ogni “contaminazione”, e quindi di esclusiva appartenenza identitaria e quant’altro; qualcosa del tipo: “dico certe cose non perché condivisibili ma in quanto destinate a caratterizzarmi come parte di un gruppo, che è tanto più forte nella misura in cui riesce a rivendicare e ad ottenere risorse per se stesso”). Dall’egemonia al dominio, tanto per dire, usando quindi categorie del Novecento. Dove se la prima indica la capacità di influenzare e indirizzare la società, facendo in modo che pensieri, usi e costumi delle classi dirigenti e dominanti diventino parte di un più diffuso sentire, il secondo – invece – rimanda ad un modello maggiormente impositivo. Fondandosi semmai sulla prescrizione e il divieto. Ossia, sui nudi rapporti di forza. La lingua alla quale facciamo ricorso, al riguardo, è sempre un fattore strategico. Poiché il modo in cui definiamo e nominiamo le cose delle vita dà ad esse una forma e, soprattutto, una sostanza. Quella condivisa, nel corso del tempo. Il punto, in fondo, rimane questo, posto e condiviso che la lingua sia in sé tante cose. Ovvero, uno strumento strategico di comunicazione; il volano della coesione sociale; il calco di identità collettive (come anche di quelle individuali: basti pensare alla fortuna di un Carlo Emilio Gadda oppure ad un Andrea Camilleri, solo per fare due nomi tra i tanti possibili). La lingua incorpora elementi del potere, soprattutto quand’esso sia il corollario di una condizione diffusa (l’«egemonia», già richiamata, ossia la diffusione e la condivisione di un apparato normativo, tale poiché costituito da regole condivise, che cristallizza le diseguaglianze e i differenziali, rendendole accettabili poiché considerati come ovvi e, quindi, «naturali», ossia immodificabili con la sola azione degli uomini); quindi, qualcosa di costantemente presente nei rapporti sociali, che produce, per il fatto stesso di esistere, al medesimo tempo simmetrie ma soprattutto asimmetrie. La semantizzazione costante di un sistema/circuito linguistico ci restituisce, facendone l’analisi critica, la mutevole configurazione di un dispositivo di diseguaglianze. Ora, poste tali premesse, qualsiasi tentativo di introdurre surrettiziamente posture di comunicazione – le definiamo in tale modo, non sapendo come altrimenti nominarle – è una distorsione, a tratti potenzialmente parodistica, della lingua stessa, da intendersi altrimenti come verace vettore di relazioni sociali. In altre parole, vorrebbe certificare il superamento di differenziali stigmatizzanti nei confronti dei «diversi» nel momento stesso in cui – invece – produce un obbligo di condotta che non nasce dalla filogenesi dello scambio semantico ma da una sorta di ontogenesi paracadutata per “decreto”. Inutile negare che il rischio di un rigetto sia dietro l’angolo: con esso, anche il rifiuto del tema del pluralismo che, comunque, è sempre e solo la risultante di una continua contrattazione tra individui emancipati. Condizione che qui viene invece a cadere. In sostanza, via l’acqua sporca ma anche il bambino. Il tema dell’essenzializzazione delle identità – ossia dell’identitarismo gruppale – è poi una questione strategica che si accompagna alle deformazioni del «politicamente corretto», dal momento che semmai si integra – e oramai in parte sostituisce – alla questione ben più ampia della coesione sociale nell’età moderna. Per farla breve: un ordinamento liberista, fatto di diseguaglianze strutturali, convive comunque bene con il ritorno di tribù perimetrale, quand’anche lo csiano intorno ad un recinto linguistico tematizzato come inviolabile. Temi difficili, tutti questi? No, per nulla. Semmai complicatissimi. Tali poiché ci restituiscono la fatica del trapasso che stiamo vivendo, da società industriali a comunità digitalizzate. Tenere insieme il “micro” (gli individui) e il “macro” (gli aggregati di individui, dalla scala locale a quella internazionale) sarà ciò che ci permetterà di capire quale sia il senso – e quindi l’indirizzo – del mutamento che stiamo vivendo sulla nostra stessa pelle. Senza risultarne, a priori, perdenti.

Claudio Vercelli

(4 luglio 2021)