La fragilità del governo israeliano
Che il governo Bennett-Lapid fosse nato fragile era chiaro fin dal primo momento, fin dalla votazione sulla fiducia, quando alla già debole maggioranza di 61 seggi su 120 ne venne subito a mancare uno. Adesso, alla prima prova parlamentare su un provvedimento controverso, ne sono venuti a mancare due e ciò ha provocato la non approvazione di un provvedimento proposto dal governo. In realtà si trattava solo di prorogare una norma già esistente, quella che impedisce per motivi di sicurezza l’estensione automatica della cittadinanza israeliana ai palestinesi sposati con israeliani. Si tratta di una norma fortemente voluta, a suo tempo, da Netanyahu che adesso, costretto all’opposizione, l’ha violentemente avversata, mettendo così in evidenza, se ce n’era bisogno, che la Knesset non è più un luogo di discussione ma soltanto di scontro.
La fragilità del governo risalta ancor più se si tiene conto che due partiti della maggioranza (il partito arabo Ra’am e quello più a sinistra dello schieramento governativo, Meretz) erano contrari alla proroga e solo con alcune concessioni che tendevano a renderla temporanea erano stati convinti a votare a favore. Ma neppure questo è bastato.
In una diversa situazione, in presenza di una maggioranza compatta, si potrebbe considerare l’episodio solo un incidente di percorso. In passato in Israele si sono avuti governi che si reggevano su maggioranze risicatissime. Ma non è questo il caso, come si sa, dell’attuale maggioranza, eterogenea e divisa. E allora? Si ripropone inevitabilmente il problema, più volte messo in evidenza, della scarsa funzionalità del sistema politico israeliano che, a somiglianza di quello italiano, sottolinea i limiti di un sistema parlamentare puro, dove l’Esecutivo dipende interamente dalla volontà parlamentare, limiti accentuati dalla presenza di una legge elettorale fortemente proporzionalistica.
Se si ripetesse una situazione simile, se si confermasse che il governo Bennett-Lapid non può contare su una maggioranza certa, si riproporrebbe la soluzione che già si era profilata qualche mese fa, cioè il ricorso a nuove elezioni, le quinte in un tempo piuttosto breve, con la forte probabilità che niente sostanzialmente cambierebbe. L’alternativa sarebbe un accordo tra tutti (o quasi) i partiti israeliani per una radicale modifica del sistema politico, con l’elezione diretta del premier senza che egli debba dipendere dal voto di fiducia parlamentare. Ma una simile riforma, che non si è avuto la forza o il coraggio di adottare in passato, adesso vedrebbe indubbiamente Bibi Netanyahu in una posizione di vantaggio perché egli è l’unico leader in grado di raccogliere intorno alla sua persona un consistente appoggio, mentre c’è da dubitare che i partiti che formano l’attuale maggioranza sarebbero in grado di individuare una figura in grado di raccogliere un ampio consenso. In queste condizioni è quindi assai improbabile che si possa arrivare a una riforma del genere e perciò, a meno di colpi di scena, bisognerà accettare la realtà di in governo fragile, sempre a rischio di cadere. E questo non è proprio un vantaggio per la democrazia israeliana.
Valentino Baldacci
(8 luglio 2021)