Segnalibro – L’ebreo in bilico

“Si può scrivere per la fama, e si può scrivere per l’Arte. Si può scrivere per la scienza o per dar voce allo spirito. Si scrive per affermare di esistere o per un bisogno istintivo di comunicare. Ogni scrittura ha un suo motivo, e in ogni scrittura c’è dell’autobiografia, di contenuti o di stile. Ma si può scrivere anche a nome di qualcun altro, per rispondere all’aspettativa di chi mai ha avuto l’ardire di esprimersi, per appagare un bisogno da anni represso, per rispondere con imperdonabile ritardo alla frustrazione di coloro ai quali la storia non ha dato una voce”.
L’ebreo in bilico – l’ultimo saggio di Dario Calimani, da oggi nelle librerie con l’editore Giuntina – è una ricognizione autobiografica su cosa significhi difendere la Memoria dai tentativi di oblio e annacquamento, rapportarsi con la propria identità in ogni sua sfumatura e purtroppo talvolta anche con un sentimento ostile trasversalmente diffuso nella società italiana. Un sentimento che si annida anche in mondi, teoricamente più istruiti, che si immaginerebbero immuni dal pregiudizio.
Il viaggio di una vita. Nei diversi universi e nelle diverse situazioni toccate con mano da Calimani, storico collaboratore di queste testate, per molti anni docente di Letteratura inglese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e da qualche mese presidente della Comunità ebraica lagunare.
Le sofferte memorie familiari, tra sterminio e salvezza. I ricordi del periodo militare, con le prime difficoltà a conciliare vita privata e servizio pubblico. E la scelta, da allora, di non privarsi più della barba che l’esercito gli aveva imposto di radersi. Amicizie e rapporti incrinatesi davanti a considerazioni malevole. Il preside di facoltà che dopo il ritrovamento di una svastica nell’aula dove insegna esprime sì solidarietà, ma in modo ammiccante aggiunge poi: “Però tu ci ha giocato un po’”.
Tra detti e non detti. Tra veleni, strafalcioni e piccole e grandi miserie, un itinerario non semplice da tracciare. E comunque coraggioso e schietto. Un libro utile per capire quanta strada resti ancora da percorrere.
Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo un brano.

IL GHETTO VISTO DAGLI ALTRI

Mi chiede di incontrarla una consumata regista Rai, per un documentario che sta girando sul Ghetto di Venezia. E io mi dispongo mentalmente all’incontro. Ripasso nella mia mente quanto so del Ghetto. Non sono uno storico, ma me ne sono occupato, e qualche dato saliente della sua storia lo conosco; soprattutto, ho una vaga idea di come il Ghetto sia stato visto dall’esterno, da viaggiatori e scrittori che l’hanno visitato. Sento di dovermi preparare a sfatare preconcetti e idee superficiali sugli ebrei e sui tre secoli di emarginazione ebraica. Ma voglio essere ottimista, e penso che una regista Rai certamente ha letto e studiato prima di venire a Venezia. E poi, essendo romana, è di certo venuta a contatto con gli ebrei attraverso l’importante comunità ebraica della capitale.
Ci penso mentre cammino per il Ghetto e, guardandomi attorno, osservo le peculiarità su cui potrò indirizzare la sua attenzione: le basse finestre degli altissimi edifici, il campo spazioso in cui migliaia di persone, per secoli, hanno vissuto nella più totale indigenza. È il Ghetto miserabile da cui, con criminale facilità, il 17 agosto 1944 furono deportati gli anziani della Casa di Riposo Israelitica.
Lo spirito del passato aleggia sulle mura delle case, nella scritta del Banco Rosso, nelle vere da pozzo, nelle iscrizioni ebraiche incise sulla pietra, negli alti finestroni delle sinagoghe debitamente, ma a fatica, mimetizzate alla vista del passante, nelle cupole che affiorano dai tetti.
È straziante leggere il resoconto che ne fa lo scrittore americano William Dean Howells, console a Venezia fra il 1861 e il 1865, il quale lo attraversa solo per caso e, dopo aver visitato la Sinagoga Spagnola ed essersi aggirato per calli e callette, osserva: “Non capisco perché ebrei di qualsiasi ceto debbano rimanere nel maleodorante Ghetto, ma è certo che vi rimangono in gran quantità. Forse l’impurità del luogo e la sua atmosfera favoriscono la purità della razza; ma mi chiedo se gli ebrei sepolti sulla riva sabbiosa del Lido, dove soffia la dolce brezza marina – deve per forza soffiare per secoli prima di poterli purgare dal Ghetto –, non debbano essere invidiati dagli abitanti di quelle case alte e sporche e di quei vicoli sporchi e bassi. Non c’era nulla di salubre o gradevole o attraente che alleviasse la perniciosità del Ghetto agli occhi dei suoi visitatori […] Ai bei tempi andati, quando la peste vendicava i poveri e gli oppressi e si riversava sui loro oppressori, quale flagello lugubre e pauroso dev’essere uscito di notte e di giorno da quelle strade orrende, per affluire ai perimetri marmorei dei palazzi patrizi, portando ai letti dei ricchi e degli alteri l’immondo squallore del Ghetto tramutato in veleno! Grazie a Dio, i bei tempi andati sono passati per sempre. In queste antiche terre si impara a odiare e ad aborrire il passato”.
Il degrado e l’indigenza sono ben visibili anche a distanza di oltre mezzo secolo dall’apertura delle porte del Ghetto. L’eredità di tre secoli di segregazione serra ancora nella sua morsa gli ebrei del ghetto. Difficile, per la massa di derelitti, sollevarsi da una miseria disperata, accettata come destino irreversibile. In un certo senso, a metà Ottocento, le porte del Ghetto sono ancora chiuse. Quando a qualche convegno sento storici e musicologi parlare della bellezza della cultura sviluppata nel Ghetto penso sempre, come contraltare, a questa descrizione.
Howells, pur empatico con la storia degli ebrei a Venezia, offre un’immagine del Ghetto vista dall’esterno, e non considera la vita e le condizioni morali e spirituali dei suoi abitanti, in quanto non ne ha contezza. Chi sembra avere, invece, chiara consapevolezza del sentimento di crisi in cui si dibattono gli ebrei del Ghetto è Israel Zangwill, lo scrittore vittoriano noto come “il Dickens del ghetto”. Zangwill, infatti, conosce per esperienza diretta il Ghetto di Venezia, ma conosce anche la miseria profonda dell’East End di Londra, un ghetto spontaneo che si formò nella seconda metà del Seicento e si consolidò a fine Ottocento con l’arrivo di masse di ebrei in fuga dai pogrom russi.
Zangwill vive dall’interno la disgregazione della comunità ebraica inglese di fronte alle aperture del moderno, e riflette sulla scissione dell’anima ebraica, divisa fra il rimanere all’interno della tradizione e della comunità, come all’interno di un rifugio sicuro, o uscire e cogliere le opportunità offerte dalla società aperta, rischiando tuttavia l’assimilazione e la perdita dell’identità.
Zangwill riflette, così, sulla divisione dell’anima ebraica ambientando a Venezia Un fanciullo del Ghetto. Nel giorno del digiuno di Kippur, mentre gli ebrei del Ghetto sono immersi nella liturgia della sinagoga, un bambino esce dalla sua prigione e si perde per le calli della città. Il mondo che ha immaginato ostile gli si rivela in tutto il suo fascino. Ma di fronte alla bellezza che scopre gli sembra di tradire la sua origine. Il bambino ha perduto il suo sguardo innocente, nella sua mente è entrata un’altra realtà. Il “figlio del Ghetto”, lacerato fra tradizione a e modernità, paga con l’irrequietudine la scoperta dell’altrove. Non c’è possibilità di compromesso fra le due opzioni. Scrive Zangwill: “Chi è vissuto in un ghetto per un paio di secoli non riesce a uscirne solo perché ne vengono abbattuti i portoni, né riesce a cancellarsene il marchio dall’anima strappandosi il distintivo giallo. L’isolamento imposto dall’esterno finirà per sembrargli la legge della sua esistenza”. Il ghetto è una forma mentale.
Il tema è quello reale dell’assimilazione che colpì la comunità ebraica (e non solo quella veneziana) quando Napoleone aprì le porte del Ghetto a fine Settecento e gli ebrei poterono finalmente sentirsi liberi e uscire dalla loro prigione.
La crisi di identità dell’uomo del Ghetto ritorna in un altro racconto di Zangwill, Chad Gadya, anch’esso ambientato a Venezia. Un giovane, dopo la essere uscito dal Ghetto e aver abbandonato ogni tradizione familiare, ritorna alla casa del padre durante il séder di Pesach, e viene sopraffatto dalla nostalgia di quel mondo e da una storia che sente di aver tradito. Lacerato e incapace di scegliere fra due sistemi di valori inconciliabili, il giovane si suicida nel Canal Grande.
La chiusura della vita nel Ghetto ispira anche Rainer Maria Rilke. In Una scena nel ghetto di Venezia, un anziano e saggio ebreo, Melchisedek, passa la vita a traslocare per poter vivere sempre al piano più alto. Le alte case del Ghetto di Venezia, costruite per accumulo, gli offrono la possibilità di ammirare a distanza il mare, lo spazio della libertà. Per sfuggire all’angustia e ai limiti del Ghetto, Melchisedek può solo sognare uno spazio privo di confini, affidandosi al potere dello sguardo e della mente. Alla fine, il vecchio saggio guarda il mare dal tetto più alto e si prostra in preghiera, mentre gli abitanti del Ghetto lo osservano da sotto. Anche loro sognano attraverso lo sguardo di Melchisedek una libertà che è loro interdetta.
Secoli di vita nel Ghetto lasciano, in chi è stato separato dalla società, la consapevolezza di un passato di diversità, e lasciano la memoria di una realtà più composita. La letteratura è solo l’istantanea di questa realtà.
Oggi, il Ghetto è di moda. Le case si sono rivalutate, la zona è decente e decorosa come ogni altra parte della città. I turisti la frequentano volentieri, la cercano, ne apprezzano l’aspetto folclorico, la diversità, l’architettura sinagogale così particolare. Gli ebrei se ne sono andati, ne sono usciti tutti, finalmente, chi per trasferimento chi per estinzione demografica. Per un ebreo è una meta abituale, per svolgervi vita di comunità o per qualche funzione religiosa o, non di rado, per accompagnare un amico che lo chiede, o un giornalista che vuol vedere, capire, documentare attraverso un contatto personale.
Un’esposizione che ci si augura sempre si trasformi in comprensione e, chissà, in testimonianza. Cosa piuttosto rara. Mentre respiri lo spirito dei secoli di vita ebraica che ha riempito ogni angolo del Ghetto, hai di fronte i monumenti alle vittime di Auschwitz. E non riesci a non pensare che il ghetto abbia anche consegnato alla Shoah il modello della segregazione. Una suggestione decisamente forte e forzata, ma un tarlo della mente, che ha nello sfondo le immagini del Ghetto di Varsavia.

Dario Calimani, L’ebreo in bilico (Giuntina, 2021)

(6 luglio 2021)