I paragoni tra pandemia e Resistenza
Fra le manifestazioni pubbliche che stanno riprendendo il loro consueto svolgimento dopo l’anno e mezzo di lockdown dovuto al coronavirus vi sono le commemorazioni partigiane. I tempi rinnovati lasciano la propria traccia nelle orazioni ufficiali di queste occasioni in cui testimoni, storici e politici prendono per lo più spunto dalla pandemia per paragonarla alla lotta di liberazione. La banalità di una simile scelta non è solo evidente in alcuni esiti retorici francamente intollerabili: ho udito per esempio mettere sullo stesso piano i partigiani in montagna di ieri e gli scolaretti costretti alla didattica a distanza oggi, come se le due esperienze, con ogni rispetto per tutte le forme di disagio, comportassero lo stesso livello di sofferenza! Credo peraltro che la difficoltà di questo approccio sia di fondo.
C’è infatti almeno una differenza a mio avviso insormontabile che si tende evidentemente a sottacere e che rende improponibile qualsiasi confronto fra liberazione e pandemia. Nella pandemia si combatte tutti da una parte sola della barricata, nella liberazione non era così. Nessuno oggi mette in dubbio la necessità di sconfiggere il virus. Si può discutere sugli aspetti pratici di questa lotta, che sono certamente impegnativi: come potenziare la sanità e gli ospedali, la scuola, i trasporti; come organizzare una campagna di vaccinazione di massa che sia efficace. Non c’è invece necessità di dibattito alcuno sulle motivazioni ideali. Semplicemente perché su queste si è tutti d’accordo.
Ottant’anni fa gli animi erano invece divisi fra dittatura e persecuzione da un lato, resistenza e libertà dall’altro. I cittadini erano chiamati a compiere una precisa scelta morale prima ancora ideale che operativa fra bene e male. La lotta partigiana è stata certamente un’indicibile sofferenza anche fisica, ma non solo. Mettere liberazione e pandemia sullo stesso piano rischia di fare il gioco di chi ha interesse a sorvolare su questa divisione fra buoni e cattivi che purtroppo caratterizzò un periodo importante della recente storia d’Italia.
Ma il rischio di questo ragionamento è più sottile ancora. Nel medesimo contesto si sente spesso invocare l’insegnamento pacifista dei partigiani in contrasto con i nazifascisti guerrafondai. Sacrosanto, ma attenzione. La pace è e resta l’ideale supremo: “se non c’è la pace, non c’è nulla” (Rashì a Wayqrà 26, 6), nella misura in cui è accompagnata ed è essa stessa il risultato della giustizia. L’etica ebraica sostiene che l’ingiustizia non possa essere tollerata in alcun modo: con il male non si scende a compromessi, dal male è imperativo difendersi, in una parola il male va combattuto. Se passiamo sotto silenzio il fatto che i partigiani hanno imbracciato le armi per contrastare il male non solo compiamo un torto nei riguardi della Storia, ma rischiamo di trasmettere alle nuove generazioni un insegnamento falsato. Altre situazioni ancora potrebbero prestarsi a confronti sbrigativi e banalizzanti privi di fondamento nella misura in cui pretendiamo di ridurre principi etici in realtà complessi a semplici slogan. Così facendo si finirebbe per dare dell’attualità una visione capovolta.
Rav Alberto Moshe Somekh
(12 luglio 2021)