Tra odio e protezione
L’antisemitismo intorno a noi continua a crescere, per ragioni e in direzioni più volte analizzate. Osservatori, processi di analisi, tentativi di intervento in molteplici ambiti sono in piena attività, con l’obiettivo di comprendere a fondo il meccanismo che accende e sviluppa il fenomeno ai nostri giorni, di formare a una visione del mondo “altra” rispetto a quella intrisa di odio che lo alimenta, di reprimere in modo efficace le sue varie manifestazioni. Come più volte ribadito, è l’intera società – vittima primaria della patologia antisemita – a doversi fare carico di questo impegno di lotta per la civiltà, da condurre con competenze e metodologie scientifiche guidate da uno spirito di umana compartecipazione. Noi ebrei, certo, abbiamo il dovere di condividere e di sostenere attivamente lo sforzo comune, mettendo a disposizione la nostra sofferta esperienza di vittime e le competenze nostro malgrado acquisite. Non può però essere compito solo nostro lanciare e portare avanti l’iniziativa per combattere l’antiebraismo, pena la mancata comprensione della dimensione sociale complessiva di cui è intessuto l’antisemitismo e un effetto di autoreferenzialità destinato inevitabilmente a produrre nella società stessa una sottovalutazione della sua natura e della sua portata. Se e quanto questo mix di analisi prevenzione e repressione potrà servire, si vedrà col tempo. Personalmente sono ben conscio dell’importanza e anche della necessità di un simile impegno generalizzato, ma sono anche tendenzialmente pessimista o quanto meno scettico sul suo effetto concreto in tempi brevi; la situazione, purtroppo, tende costantemente a peggiorare per motivazioni di ordine complessivo, ed è difficile ora come ora prevedere che il barometro-antisemitismo tenda a posizionarsi sul bello. Diciamo che l’utilità presente di tutte le strategie messe in atto è soprattutto quella di mantenere questa patologia sociale sotto controllo e di reagire alle sue più diffuse manifestazioni.
Ma cambiamo prospettiva. Se proviamo a dirigere verso noi stessi il nostro sguardo e a cogliere l’effetto che produce su di noi in quanto minoranza la doppia azione dell’insinuante antisemitismo da un lato e del molteplice percorso di lotta al pregiudizio dall’altro, possiamo giungere a considerazioni interessanti: possono emergerne spunti per una autoanalisi del nostro piccolo gruppo e della sua attuale condizione. Al disagio, allo smarrimento, al senso di isolamento che si impossessano di noi ebrei qui in Italia davanti al ripetersi e al moltiplicarsi di episodi in fondo limitati ma significativi, in altri paesi (emblematico quanto avviene in Francia o negli Stati Uniti, ma ultimamente anche in Germania e in Polonia) si aggiungono inquietudine, autentica paura, angoscia e dubbi profondi sulla possibilità di sopravvivere in quel luogo, di fronte a fatti dirompenti e violenti, a veri e propri attentati con la loro scia dolorosa di vittime: basta pensare agli attentati di Tolosa e Montauban, a quello all’Hypercacher di Parigi, alla straziante vicenda di Sarah Halimi; o alla strage alla Sinagoga di Pittsburgh. Profonde e difficili da curare sono le ferite provocate nella società ebraica locale da tale violenza distruttiva.
A fronteggiare questo crescendo tangibile della minaccia, l’abbiamo visto, la società si mobilita in direzione documentaria, preventiva e repressiva; anche se purtroppo la risposta collettiva latita proprio là dove una ostilità di fondo nei confronti degli ebrei emerge dalle stesse istituzioni, come in Polonia e in Ungheria. In che modo è vissuto dalla minoranza ebraica, al centro della questione, l’attivarsi del corpo sociale contro il montante pregiudizio antisemita? Difficile dirlo con precisione, perché i dati in proposito sono evidentemente vaghi, e perché le reazioni sono molto differenziate all’interno dei variegati ambienti ebraici. Un indirizzo di risposta possiamo però tentare di darlo, soprattutto rispetto al mondo ebraico italiano del quale facciamo parte. Accanto a un diffuso silenzio sull’insieme di questi interventi, interpretabile forse come una sottintesa conferma del loro carattere doveroso e naturale (“è il minimo che uno Stato civile possa fare”), emerge una esplicita approvazione, che diviene condivisione e organizzata partecipazione delle istituzioni ebraiche alla lotta contro l’antisemitismo. Ma accanto a tutto ciò si profila forse anche una qualche forma di disagio, l’imbarazzo di una minoranza sempre più esposta, sempre più analizzata alla luce dei riflettori di un osservatorio specializzato. Forse una parte inconscia di noi stessi non vorrebbe essere così al centro dell’attenzione, così studiata e “protetta”. Vorremmo poter essere “normali” cittadini, lasciati alla loro vita tranquilla e alla loro cultura “normalmente” diversa. Vorremmo; ma purtroppo un nemico agguerrito non lo permette. E allora inghiottiamo, introiettiamo questo malessere da sovraesposizione; e impariamo invece dalla nostra condizione di fatto a conoscere meglio chi siamo anche attraverso gli occhi del mondo che ci osserva.
David Sorani
(13 luglio 2021)