Baseball ed ebrei: un nuovo capitolo
per la “storia d’amore americana”

Bravi forse con la testa, ma negli sport proprio no. E se quello sport è il baseball, una delle glorie nazionali, questo è un problema. Ma per fortuna qualche campione è arrivato anche lì, nelle nove riprese dette inning che in Italia suscitano emozioni blande, se non a una ristretta cerchia di appassionati, ma che da Washington al Texas, dalla West Coast alla Bible Belt, sono elemento identitario irrinunciabile. Bene, sì, anche gli ebrei sanno giocare. Sono dei “nostri”.  
“Jews and Baseball: An American Love Story”, film documentario del 2010, racconta molto bene questo intreccio. Merito anche degli interpreti d’alto livello che ci hanno lavorato: il Premio Pulitzer Ira Berkow che ha curato la sceneggiatura, il più volte premio Oscar Dustin Hoffman in qualità di voce narrante. Una ricognizione suggestiva, anche nelle storie evocate. Barney Pelty, detto lo “Yiddish Curver”; Samuel Ralph Nahem, per tutti “Subway Sam”; e ancora Mose Hirsch Solomon, che aveva il titolo onorifico di “Rabbi of Swat”. Volti sgranati in foto d’epoca del primo Novecento. Nomi e vicende umane che qui ben poco diranno, ma che negli Usa appartengono alla categoria del mito. Oggi un simbolo, ma costretti allora a confrontarsi con contesti non sempre dei più incoraggianti. Basta fare il nome, tra gli altri, di Henry Ford. Il celebre capitano d’industria noto anche per il suo antisemitismo secondo il quale tutti i mali del baseball avevano un problema alla radice: “Troppi ebrei”. Diversi dei quali anche occulti, abili nel dissimulare “attraverso il cambio del nome”.
Questa lunga e comunque complessa “storia d’amore americana”, che ha nel leggendario lanciatore Sandy Koufax una delle figure più rappresentative, vive ora un nuovo capitolo. Per la prima volta dalla sua fondazione, nel lontano 1903, la Major League potrebbe avere tra i suoi protagonisti un ebreo ortodosso. Anzi, addirittura due. Si tratta del 17enne Jacob Steinmetz, originario di New York e residente a Long Island, appena selezionato dagli Arizona Diamondbacks. E di Elie Kligman, che di anni ne ha 18 ed è nativo di Las Vegas, scelto invece dai Washington Nationals. Siamo ancora a livello di draft. Ma il grande salto sembra possibile.
Il dibattito si è subito aperto, anche sulla stampa americana: come potranno i due giovani atleti – molto attenti all’osservanza delle regole ebraiche – conciliare questo loro modo di vivere l’ebraismo con un’attività sportiva che richiede disponibilità ed energie h24?
Kligman avrebbe già messo le cose in chiaro: lui di Shabbat e festa solenne non sarà della partita. “Quei giorni appartengono a Dio”, ha detto al New York Times in una intervista. Mentre Steinmetz avrebbe dato la sua disponibilità, a patto di raggiungere la località di gioco prima del tramonto e di muoversi tra hotel e stadio esclusivamente a piedi. Una ipotesi che per il padre di Kligman non esiste: “Per sei giorni alla settimana mio figlio dà il massimo per essere un giocatore di baseball. Se non ci saranno cambiamenti in Major League si arriverà fin dove è possibile”. Quindi, evidentemente, non oltre i limiti imposti dall’osservanza.
Il giornalista e blogger Ron Kaplan, in un interessante intervento sulla Jewish Telegraphic Agency, spiega come undici giocatori che si identificano come ebrei sono scesi in campo nell’ultimo torneo (per un totale di oltre 300 in tutta la storia della lega). Ma che nessuno di essi si ritiene “osservante” nel senso tradizionale. Con Steinmetz e Kligman si entrerebbe quindi in un terreno nuovo, inesplorato. Con un po’ di buona volontà da parte delle squadre un compromesso sarebbe però possibile. “Il modo di giocare è cambiato. Non si è in campo tutti i giorni”, scrive Kaplan. 
Un ebreo ortodosso in Major League sarebbe una novità assoluta. Quel che deve accadere ancora nella realtà è però già successo nella finzione. Come nel romanzo The Season of Pepsi Meyers di Abie Rotenberg, uscito nel 2015, che ha per protagonista un giovane talento ortodosso che approda alla corte dei New York Yankees.
Senza dimenticare che alcuni tra i più grandi scrittori ebrei d’America hanno, tra i loro capolavori, storie che ruotano attorno al baseball. Come Il migliore, di Bernard Malamud, uscito nel 1952. O Il grande romanzo americano, una delle opere più corrosive di Philip Roth, pubblicato nel 1973.
Racconterà quest’ultimo: “Il baseball fa presa sui fan per due elementi principali. Come molti altri sport, ha grande eleganza e c’è l’eroismo individuale. Come bambino americano sei ipnotizzato da entrambi. Da ragazzo giochi a baseball per tutta l’estate, per tutto il giorno, fino a sera, fino a quando c’è abbastanza luce per vedere la palla. Poi, come un adulto, lo guardi e lo segui per il resto della tua vita. Ancora come fossi un bambino”.
In fondo, la stessa identica cosa che succede in Italia col calcio.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(Nelle immagini, dall’alto in basso: una cartolina autografata da Sandy Koufax, uno dei più grandi lanciatori della storia; la locandina di “Jews and Baseball: An American Love Story”; l’astro nascente Elie Kligman; l’altra grande promessa Jacob Steinmetz; la copertina del Grande romanzo americano di Philip Roth)

(16 luglio 2021)