Lo studio degli ebrei
Il confronto sull’importanza dello studio del Talmud, a cui Rav Somekh ci ha invitato, sulla scorta delle affermazioni di Rav Yosef che in Israele hanno aperto un’ampia discussione, mi sembra particolarmente rilevante. Non ho la pretesa di offrire risposte, ma mi pare importante guardare alle questioni poste da una prospettiva di tipo storico e con uno sguardo curioso sul tempo presente. L’opportunità di inserire nel curriculum di studi ebraici discipline diverse dagli studi canonici, ha caratterizzato interessato vari momenti storici e luoghi geografici. La proposta di volgere lo sguardo anche a percorsi non prettamente religiosi, pur mantenendo al centro dello studio tradizionale la Torah e la Legge orale (che costituiscono il nucleo ineludibile della civiltà ebraica), ha contribuito ad arricchire e ampliare l’orizzonte culturale di riferimento. Il confronto con la cultura ellenistica, che condusse alla redazione greca della Bibbia dei Settanta, non poteva che fondarsi su una conoscenza attenta del pensiero greco. La conoscenza della mistica islamica era ben nota agli studiosi delle accademie talmudiche di Babilonia, così come le scienze matematiche in età medievale che hanno offerto spunti di riflessione ai Maestri dell’ebraismo per i testi di cosmogonia e perfino astrologici. In Italia le stagioni dell’Umanesimo e del Rinascimento hanno lasciato visibili e importanti tracce di interdisciplinarietà. Molti pensatori e Maestri di differenti tradizioni, pur abbeverandosi alle molteplici sapienze proposte dalla cultura in cui erano avvolti, sono rimasti saldi nelle proprie convinzioni.
Il modello della Yeshivà, che a ben vedere appare in tempi non antichissimi nelle comunità ebraiche della diaspora europea, si afferma in Italia non prima del XV secolo. Jehuda Minz a Padova è probabilmente il primo a proporre una scuola stabile con quelle caratteristiche. Un’offerta didattica rivolta agli studenti ebrei che, nel contempo, studiavano medicina alla locale Università. È peraltro noto che a causa del rogo del Talmud imposto nel 1553 la disponibilità di copie complete dell’opera fu pressoché nulla per oltre due secoli nella nostra Penisola. Gli ebrei e i loro Maestri furono costretti a ricorrere ad antologie (spesso censurate) come l’Eyn Ya’aqov. E con tutto ciò non mancarono anche in Italia illustri talmudisti, come ad esempio il medico ferrarese Itzhaq Lampronti che con il suo Pahad Yitzhaq offrì nel secolo XVIII uno strumento importante sia per lo studio del Talmud sia per una conoscenza storica delle strategie giuridiche adottate dall’ebraismo italiano per sopperire all’indisponibilità del testo originale.
Il dibattito sull’opportunità o meno di allargare l’orizzonte del sapere a discipline secolari fu sempre molto acceso anche in Italia. Si pensi al grande Moshe Zacuto, che per “espiare” a quel che lui considerava un peccato imperdonabile (l’aver studiato il latino) si impose un lungo periodo di digiuno allo scopo di dimenticare tale competenza, perché lo avrebbe sviato dallo studio della Torah. Ad ogni buon conto si può dire che fu piuttosto rilevante e direi arricchente per gli studiosi ebrei in Italia e altrove uno studio non esclusivo come quello previsto dal modello della Yeshivà. E anche sull’esclusività effettiva di quel modello ci sarebbe probabilmente da discutere: si pensi ad esempio al noto interesse che il Gaon di Vilna dichiarava apertamente anche per alcune discipline estranee allo studio del Talmud. Come si può vedere, anche solo per cenni, stiamo parlando di una realtà non monolitica, ma complessa e articolata.
Oggi viviamo forse il momento nella storia della civiltà ebraica in cui è più diffuso lo studio del Talmud nel mondo. Con l’introduzione del cosiddetto “daf yomì”, che si vorrebbe proporre come modello di esperienza di studio a livello globale, e con la diffusione di numerose e attente traduzioni in diverse lingue (ebraico compreso), lo studio di quei testi è diventato sempre più centrale. Si tratta probabilmente di ragionare sull’efficacia sia in termini di competenze, sia in termini di politica culturale, di un modello tardo medievale come quello della Yeshivà, quasi esclusivamente dedicato allo studio della letteratura rabbinica. Da molti anni i giovani ebrei italiani non frequentano se non in sporadici casi quel tipo di esperienza, preferendo di gran lunga gli studi secolari sempre più indirizzati a discipline scientifiche o economiche (anche gli studi umanistici sono piuttosto disdegnati). Eppure, l’impressione è che anche in Italia sia in crescita la consapevolezza di un ritorno a uno studio più continuativo delle fonti originarie della tradizione ebraica.
In questo contesto si innestano le questioni poste da rav Yosef e riprese da rav Somekh relative a una ipotetica gerarchia dei saperi. Si tratta – come fa correttamente notare Alberto Cavaglion – di un approccio che richiama al tentativo già proposto a suo tempo dal positivismo, che mirava a stabilire un’ipotetica preminenza razionalista e scientista rispetto ai saperi umanistici. A me sembra che si stia in realtà eludendo una questione più ampia di “politica culturale”. Se è indubbio un generale indebolimento delle discipline umanistiche, ormai da molti decenni soppiantate da scelte istituzionali che hanno agevolato gli ambiti più immediatamente produttivi legati allo sviluppo tecnologico e alle discipline economiche, è anche evidente che cresce nel mondo la sete di saperi religiosi che sottraggano alle manipolazioni fondamentaliste le fonti stesse della morale su cui si fonda la nostra civiltà. Leggendo – e studiando – il fondamentale saggio di rav Jonathan Sacks sulla “Moralità” (Giuntina, Firenze 2021) ci si rende conto alla radice di tutto è questo il tema su cui porre l’attenzione e la riflessione. Riconoscendo la competenza specifica dei percorsi di studio nelle Yeshivot tradizionali per coloro particolarmente dotati in quelle specifiche discipline, ritengo fondamentale l’avvio, o il riavvio date le precedenti esperienze proficue, di politiche culturali che restituiscano ai nostri giovani le competenze e conoscenze culturali di base quali la conoscenza della Bibbia, a cui aggiungere una solida consapevolezza storica accompagnata da competenze filosofiche e linguistiche per poter scegliere in seguito con coscienza i percorsi più adatti alla propria indole, come mi sono trovato a scrivere più volte.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC
(16 luglio 2021)