Il cedro reclinato

Il Libano muore. Ovvero, più che piegarsi rischia adesso di spezzarsi. Si estingue sul piano civile, nel mentre cerca di sopravvivere sul versante economico e si aggrappa disperatamente alle poche risorse che la società può ancora garantirsi. Da sola, beninteso, posto il vergognoso fallimento di un’intera generazione di politici. E non solo di essi. Sarà inutile piangere, nel caso in cui non venga posto un freno a questo delirante declino, sulla sua futura cantonalizzazione. Già da molto tempo, peraltro, le diverse regioni del Paese sono divise in aree di influenza, sommatesi, e in parte sovrappostesi, ai precedenti feudi familistici. Un regalo, quest’ultimo, rafforzato anche dal vecchio dominio mandatario francese, esercitato formalmente tra il 1923 e il 1943, quando infine il territorio, separato dalla Siria, divenne uno Stato indipendente. Si parlò, nei decenni successi, di una «Svizzera del Medio Oriente»: era il pronunciarsi in virtù di uno sguardo piuttosto strabico, attento soprattutto al lungomare di Beirut ma estraneo al resto della collettività, laddove invece le sofferenze levitanti stavano per tradursi in insofferenze incolmabili. Rimaniamo però sull’oggi. Poiché il tracollo libanese conta senz’altro cause antiche, strutturali, ascrivibili all’incompiutezza della sua scommessa multiculturale, alla fragilità della politica nazionale e all’essere, nella regione, un vaso di coccio tra vasi di ferro. Ma la nuova, gravissima crisi, che si è innescata in questi ultimi mesi, rivela la persistenza di meccanismi di segmentazione e spartizione delle ricchezze nazionali che, di fatto, ne rendono il territorio un’area ideale di rapina per gruppi organizzati. A partire da un sistema finanziario, bancario e assicurativo che non ha poca parte nelle dinamiche in atto. Poiché se un paese intero reclina e declina, la società civile sarà senz’altro chiamata a pagare pegni terribili; tuttavia, i piccoli gruppi corporati, concentrati nei gangli vitali di una comunità nazionale fragile e debole, potranno non di meno depredarne le restanti risorse, spogliandola di ogni bene residuo. La sciagura non sta mai nell’effettiva mancanza di un qualcosa ma nel fatto che ciò che dovrebbe costituire una fonte collettiva, a partire dall’energia, venga invece sistematicamente dirottata nelle mani di soggetti il cui operato parassitario ha una dirompenza sociale pari ad una sventura senza termine. Per il Libano non è una novità ma, al momento, nel cataclisma che sopravanza, ripetendo in ciò alcuni tristi schemi già collaudati nel passato, manca la variante della guerra civile che, invece, tra il 1975 e il 1990 aveva insanguinato l’intero Paese. Mentre pesa, in maniera decisiva, la dinamica tra profughi (almeno un milione e settecentomila) – perlopiù siriani, riparati dentro i confini nazionali, senza una qualche prospettiva – e diaspora libanese (pari almeno al numero di connazionali rimasti sulle loro terre), che l’orizzonte se lo è invece costruito al di fuori dei luoghi di origine. Un tempo neanche troppo lontano era stata coniata la definizione di «Stato canaglia» (Rogue State) per squalificare quei protagonisti della scena internazionale che non rispondessero, secondo l’ottica dei loro antagonisti, a quei livelli minimi – e come tali insindacabili – di attendibilità e reciprocità. Il ricorso ad una tale terminologia, poi sostituita da espressioni meno dirette e muscolari (ad esempio, quella di «State of concern»), è andata temporaneamente scemando. Mentre dovrebbe essere presa in considerazione un’altra espressione, quella di «ceti scellerati», intendendovi quei gruppi, molto spesso transnazionali ed internazionali, che spolpano le società locali. Fin troppo facile, dicendo ciò, correre il rischio di scivolare nella pantomima del «complotto dei poteri forti» (e occulti). Non di ciò si tratta, per capirci: gli autori – e spesso beneficiari – della nuova crisi libanese hanno nomi e cognomi ben conosciuti. Non si nascondono neanche dietro foglie di fico. Semmai, osservano l’altrui declivio, celebrandosi per il giovamento che ne traggono. Poi, se ne può stare certi, le prefiche dell’ipocrisia verseranno le loro lacrime gratuite sul letto di dolore di una società abbandonata a se stessa. Ma a cose compiute, si intende. Altrimenti, che recita sarebbe?

Claudio Vercelli