Storie di Libia – Yoram Ortona
Yoram, nato a Tripoli nel settembre del 1953, ebreo italiano di Libia. Sua madre, di origini tunisine, era una ebrea osservante. Era una donna molto bella, bionda con gli occhi azzurri ed era stata anche Miss Maccabi in gioventù. Suo padre, di origine italiana, più tradizionalista e sionista, a soli 23 anni divenne direttore del Corriere di Tripoli, un giornale del P.I.O.(Public Information Office). Una carriera fulgida. Il Primo novembre 1945 scoppiò però il primo pogrom antiebraico. Lui era stato il primo a ricevere quelle buste gialle con la stampiglia “Very Urgent – Top Secret” che contenevano le notizie sui disordini e sui nomi delle vittime.
Una famiglia bellissima che viveva a Tripoli in più che decorose condizioni economiche e svolgeva una vita felice, finché il 5 giugno del 1967, mentre svolgeva il tema per l’esame di licenza media, la preside interruppe la prova e lo mise in contatto telefonico con il padre che gli ordinò di correre immediatamente a casa dello zio, più vicina alla scuola della loro abitazione. Una grande massa di gente inferocita aveva dato inizio, per le strade di Tripoli, alla caccia all’ebreo. Gli incendi di negozi e di case degli ebrei non si contavano, così come delle numerose sinagoghe. Con la sua bicicletta, evitando la folla inferocita, si diresse verso il suo primo rifugio.
Yoram ricorda con commozione quell’odore acre del fumo, impossibile da dimenticare, anche dopo così tanto tempo. Quando sentirono colpi al portone, nel tentativo di essere sfondato, si rifugiarono sul terrazzo e lui sentì la zia dire al marito “Se entrano, buttiamoci di sotto, non permettiamogli di linciarci!”.
Ma riuscirono a superare quel terribile momento e il padre lo raggiunse al tramonto, in un auto guidata da un suo collaboratore berbero, per non destare sospetti. Con lui si recò a prendere i fratellini a scuola, dalle suore alla Dhara. Le suore inizialmente negarono al berbero la presenza dei bambini, evidentemente per proteggerli, ma li consegnarono immediatamente al padre quando lui scese dalla macchina per farsi riconoscere. Per 12 giorni vissero asserragliati in casa con le tapparelle abbassate e nel silenzio totale per la paura e l’angoscia, con la luce elettrica accesa tutto il giorno.
Il padre, per la sua posizione, aveva molte conoscenze in ambasciata, anche perché qualche anno prima era stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana per meriti giornalistici. Così riuscì a trovare quattro posti su un volo dell’Alitalia diretto a Roma: partirono in cinque, con la sorellina di 5 anni sulle ginocchia del padre. Ancora ricorda lo skyline di Tripoli, il lungomare, le palme e la cattedrale che si allontanavano alla sua vista per l’ultima volta. In aeroporto alla madre avevano levato gli ultimi gioielli e così, come tutti gli altri ebrei, partirono con due valigie e venti sterline libiche che nessuno a Roma volle cambiare. Atterrando a Fiumicino venne abbagliato da un cartello pubblicitario che invitava a visitare Israele e la Gerusalemme d’oro e ne fu molto colpito perché a scuola sull’Atlante geografico all’altezza di Israele c’era un ritaglio di carta incollato con la censura del Governo libico.
Il trauma per lui e la sua famiglia fu la fuga obbligata per evitare di essere uccisi ma ha anche dei bei ricordi della sua Tripoli e li racconta volentieri. In Libia con la situazione attuale non vorrebbe tornarci per la verità, anche se lì sono ancora sepolti i suoi nonni materni.
Fa paura l’odio razzista e discriminatore che addirittura in Israele, come abbiamo visto pochi mesi fa, muove alcuni arabi contro gli ebrei anche ai nostri giorni. Conserva molte tradizioni comuni agli ebrei di Libia, oltre alla cucina tipica, come ad esempio i canti sinagogali. È felice di averle trasmesse insieme alla moglie Dalia ai propri figli.
Yoram è architetto e vive a Milano da 40 anni. Ha viaggiato molto all’estero anche per lavoro e spesso si è recato in Israele.
Ci dice: “Israele è come fosse mia madre, la mia culla. Milano con la sua cultura e l’Italia è come fossero mio padre!”
Come molti ebrei dice di vivere alla giornata. Infine ci mostra una pubblicazione intitolata “Il pogrom dimenticato”. C’erano una volta le sinagoghe in Libia, la testimonianza ritrovata del direttore del Corriere di Tripoli.”
Sono le considerazioni scritte dal padre con tratti poetici. Cita: “Disumano da morire lo strappo per quello che per tutta la vita i nostri padri nonni e bisnonni avevano considerato e amato come la nostra patria. Ma era tutt’altro che una sciagura. Su quell’aereo stavamo correndo verso la fortuna! Il tempo è un unguento che non ha eguali che non ha rivali: lecca le ferite e attenua il dolore, anche il più forte. E quando dopo i primi legittimi sfoghi della disperazione, a mente fredda si passa dalla tensione alla meditazione, la ragione ha il sopravvento, e vince. Come per noi è stato così per tutti gli ebrei che si erano battuti il petto per aver perduto Tripoli”.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(19 luglio 2021)