Segnalibro – Io e la mamma

“Io e la mamma. Dramma semiserio per madre castrante e figlio attore cane. Ovvero. Come rovinarsi la vita con gioioso masochismo in salsa ebraica!”.
Un titolo che è tutto un programma: un libro che si annuncia, già da questa premessa, effervescente. A scriverlo Roberto Attias, attore, sceneggiatore, regista e molto altro ancora, spesso sul palco con performance a tema ebraico. Le sue generalità, come le declina lui stesso: “Mezzo tedesco, 100% ebreo, 1/4 tunisino, romano a tutti gli effetti”.
Un libro divertente, che strappa molti sorrisi anche nel segno di quello che è un grande classico della letteratura ebraica, il rapporto madre-figlio. Si ride, ma nella miglior tradizione dei libri intelligenti, e questo lo è, l’autore ci porta anche a riflettere. E a farlo anche su temi complessi come identità, diversità, confronto e talvolta scontro con una società non sempre ricettiva nei confronti di ciò che esula da una certa omologazione. Che non contempla la “differenza”, almeno non come arricchimento di vedute e prospettive. Una storia, vien da dire, molto italiana. Vale come esempio lo stralcio che pubblichiamo dal volume, pubblicato da Efesto edizioni. Anche in questo caso l’arma dell’ironia (e autoironia) usata per sollevare argomenti non banali.
Banale, si capisce, non lo è neanche la madre del protagonista. “Talmente fuori le righe, le regole, le aspettative etiche, sociali e religiose, da risultare un ‘esemplare’ umano fuori da ogni catalogazione, e che assicura al percorso narrativo una presenza assolutamente non solo provocatoria per il lettore, ma anche fortemente affabulatoria e affascinante, e fonte di umorismo travolgente” riconosce nella prefazione Giorgio Taffon, docente di Letteratura Teatrale Italiana e di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università Roma Tre.

Roma 1976
Sì, ma come si era potuti arrivare a tutto ciò? Come era stato possibile che la storia di una vita, apparentemente normale, come tante altre, per quanto allegra, avventurosa e pregna di successi artistici, avesse potuto evolversi verso una tragedia di tali dimensioni?
Eppure era cominciata sotto i migliori auspici…
All’età di sette anni, assorbita ed archiviata senza troppi apparenti scompensi (almeno in un primo momento) la tragica dipartita di mio padre a causa, mi dissero, di un infarto fulminante, mi attaccai come una cozza a mamma Sarah e a nonna Romilda, per spiccare il volo verso quella che avrebbe dovuto essere la grande avventura della mia vita. Avevamo deciso di comune accordo, io, la mamma e la nonna, di dare un taglio netto alla vita passata, di cambiare casa e di trasferirci nel borghesissimo quartiere Prati e più precisamente in via degli Scipioni, a ridosso del fiume Tevere. La nonna sperava in cuor suo che mia mamma a contatto con un ambiente tranquillo di brave e buone madri di famiglia, si potesse dare una calmata, ma malauguratamente non accadde niente di tutto questo. Io invece feci di tutto per ambientarmi, calandomi nel mio nuovo milieu borghese come un piccolo camaleonte assetato di normalità e di totale assimilazione.
Nella mia nuova scuola, l’austera Ermenegildo Pistelli, situata a ridosso di piazza Mazzini, fin dal primo giorno avevo espressamente intimato a compagni e maestra di non azzardarsi a pronunciare il mio nome e tantomeno il mio cognome: per tutti ero diventato Nico, Nico e basta.
Già mi bastava l’anomalia di essere l’unico ebreo in classe, o forse in tutta la scuola, cosa che attirava non certo l’ostilità, ma pur sempre una certa pelosa curiosità antropologica da parte dei miei compagni dell’epoca. – Ma tu allora non sei italiano…? Scusa io sono cattolico, quindi sono italiano! Ma tu no, tu sei ebreo, o sei ISDRAELIANO? – Appena entrava in classe qualche persona nuova, maestro, genitore o collaboratore che fosse, tutti i bambini sentivano la necessità di mettere al corrente il malcapitato della mia curiosa anomalia – Sa, lui è… ebraico! –
La cosa non è che mi desse più di tanto fastidio, anzi in un certo qual modo mi faceva sentire al centro dell’attenzione, in fondo ero considerato uno “speciale” e questo mi dava quell’aura un tantino esotica che mi distingueva dalla quella massa di bambini tutti uguali, cattolici, di buona famiglia, dell’educatissimo quartiere Prati, nella metà degli anni settanta. L’unico ostacolo talvolta era rappresentato dal prete, che ci faceva lezione di religione in classe, il vice parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Cristo Re, il povero don Graziano. Era un prete all’antica, bigotto e ignorante come una capra, con il quale, dall’alto dei miei setteanniemezzoquasiotto mi divertivo a polemizzare (pur essendo rigorosamente esonerato dallo studio della religione cattolica) sul concetto a lui tanto caro dei perfidi ebrei, deicidi e uccisori del Cristo. In queste dotte dispute teologiche iniziai a dimostrare una vis polemica non indifferente, ribattendo animatamente punto su punto alle tesi del povero parroco, coinvolgendo e talvolta anche riuscendo a portare dalla mia parte qualche ignaro compagnuccio, meritandomi così l’appellativo de “l’avvocato”, che mi portai appresso a lungo nella mia carriera scolastica. Ricordo che più di una volta la signora maestra Antonella Felicetti, dovette intromettersi all’acme della tenzone, per cercare di sedare gli animi infuocati, dando per così dire, un colpo al cerchio e uno alla botte, provando a non sconvolgere troppo il prete e i poveri bambini, sconcertati dall’idea che il loro amato Gesùcristo, fosse in realtà nient’altro… che un ebreo.
– Vedete bambini, come posso dire…. Gesù, era… sì ebreo, ma così…magari all’inizio! Poi dopo magari… in seguito… insomma sono successe tante altre cose, ma ne parleremo un’altra volta. Per favore padre Graziano, non dica di no! Io già faccio una gran fatica. E ora tutti in cortile. –
Era chiaro ed evidente che già si intravedevano nel mio carattere, chiari segni di amore per le scene madri, che conducevo a mio piacere con maestria e uno spiccato senso verso la spettacolarizzazione del conflitto. La sera poi, riferivo punto per punto le mie controversie mattutine alla mamma e alla nonna e ricevevo da parte loro un po’ di sana controcultura ebraica, quel tanto per non far perdere l’orgoglioso ma anche un po’ appannato legame, che mi congiungeva orgogliosamente alla mia pur sempre gloriosa stirpe.
E sì perché la mia famiglia, sia dalla parte materna ispano-livornese dei Barrocas, che da quella Austro-polacca dei Katseneluborgen, non era mai stata particolarmente religiosa, anzi direi quasi per niente. Erano ebrei laici infatti, quasi atei, orgogliosamente di sinistra, con picchi di attivismo sionista-comunista gli avi dalla parte Katseneluborgen. Mio nonno polacco, membro attivo del Bund, il movimento socialista ebraico, diplomato al conservatorio di Varsavia, aveva fatto aliya, ovvero la “Salita” in Israele già nel 1912, andando a vivere in uno dei primi kibbutzim della Galilea. Pur nipote di un rabbino, era praticamente alieno da ogni percezione religiosa, ma testardamente e orgogliosamente ebreo. Stessa cosa dicasi per il ramo Barrocas, ebrei provenienti dalla Spagna, dopo la cacciata del 1492 e stabilitisi in seguito a Livorno. Ebrei fieramente laici, mercanti, dottori e letterati di fama, si erano distinti nelle guerre d’indipendenza per il loro spirito garibaldino, integrandosi molto bene nella vita livornese.

Roberto Attias – Io e la mamma

(20 luglio 2021)