Negare la vita per esistere

Beninteso: poiché oggi è il 25 luglio, sarà meglio rammentarci tutti che si ricorda la caduta del regime fascista, indecorosamente crollato nelle segrete stanze di Palazzo, luogo di trame, e tra l’ingenuo tripudio popolare, dopo un ventennio di dittatura. Quest’ultima nel consenso dei tanti e, soprattutto, cosa ancora più importante, con il dissenso dei pochi. Posto questo paletto, non di mera circostanza, rimane il resto. Che si raccorda con ciò che fu. «Who controls the past controls the future. Who controls the present controls the past», affermava il supercitato George Orwell. Bisognerà pur chiedersi, in un tale contesto, soprattutto in questa età, al medesimo tempo pandemica e sindemica (crisi sanitaria mondiale sommata alla crisi economica subita dai tanti), a cosa corrisponda ciò che definiamo con il nome di «negazionismo». Rimozione? Elusione? Evasione? Banalizzazione e così via? Per chi scrive, se parliamo di Shoah, è il crimine al quadrato: negare non solo la vita di quanti furono annientati dal razzismo di Stato ma, soprattutto, azzerare la morte concreta di costoro, letteralmente sputando sulle tombe di quanti ne furono quindi immediate vittime. Una blasfemia, pertanto. Poiché coloro che offendono l’esistenza umana, arrecandovene sommo pregiudizio di memoria, sono empi allo sguardo stesso di ciò che è invece elemento ordinatore della vita medesima. A partire, per i credenti, dall’Ente supremo. Per gli altri, al pari ed invece, di tutto il resto. Diceva, al riguardo, il filosofo Immanuel Kant: «due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me» (Epitaffio, estratto dalla «Critica della ragion pratica»). Per capirci fino in fondo: ognuno la pensi come meglio crede rispetto a certi ordini di considerazioni, posto tuttavia che sussistono linee dell’etica comune che non possono essere varcate se non a costo di pervertire il senso dello stare insieme, così come i significati dell’esistenza umana. Anche per questo, infatti, i negazionisti della Shoah sono repellenti: poiché mettono in discussione non solo ciò che è successo (la storia) ma quanto potrebbe consapevolmente capitare (nel tempo a venire). E con esso, il lessico di significato di senso comune. Sono quindi guastatori dei significati condivisi; come quei bombaroli che fanno esplodere le linee di comunicazione, senza però avere altro obiettivo che non sia il perturbamento dell’animo comune. Chi nega il passato – infatti – vuole condizionare non quanto avvenne, cosa di cui spesso nulla gli importa, bensì ciò che potrebbe essere. Al pari di un usuraio, che francamente non si interessa dei debiti pregressi della sua vittima ma della (sua potenziale) dipendenza a venire. Poiché al padrone di sempre non interessa mai il trascorso individuale, ovvero quanto una persona fu, bensì l’orizzonte futuro, quello per cui quel medesimo individuo, e tanti come lui, non possono affrancarsi con le loro sole forze dalle catene che li legano: una sorta di giostra infame, dove le relazioni sociali sono costruite non sull’emancipazione bensì sul maniacale bisogno di dipendenza. Rispetto ai poteri di ogni tempo. Per capirci fino in fondo: non appassiona l’astrazione intellettuale del «desiderio di libertà» dei singoli (tutti – in fondo – diciamo di volerla, nessuno sa come concretamente trovarla), bensì la concretezza materiale dell’angoscia dei tanti (“come potrò proteggermi rispetto ad un futuro che percepisco come incerto?”), ai quali il discorso sulla «protezione» pone falso e fittizio riparo, offrendo un ombrello di finte sicurezze, raffigurate – in maniera fallace – al pari di una specie di soluzione definitiva ai molti quesiti dell’età che stiamo invece vivendo. Un lenitivo, in buona sostanza il quale, posto che abbia funzionato nel passato, potrebbe risultare ancora fingersi efficace nel futuro. Detto questo, per ciò che ci riguarda, non si tratta tanto di fare elucubrazioni accademiche bensì di risparmiarci semplificazioni di sorta. In fondo, queste ultime sono il vero peccato mortale dei tempi che stiamo vivendo. Quindi, nessuna indulgenza rispetto alla metafisica, tanto per capirci fino in fondo, senza fraintendimenti di merito. Ossia, stiamo (e rimaniamo) con i piedi per terra. Ma evitiamoci anche improvvide aperture alle banalizzazioni di sorta. Semmai, per parte nostra, esercitiamoci nei rifiuto del ripetersi di un cliché, che invece deve essere, come tale, costante oggetto polemico dei nostri pensieri critici. I quali rimandano non tanto alla mistificazione delle parole, altrimenti non solo preziose ma imprescindibili, come «libertà». Bensì alla loro cancellazione dal vocabolario dei diritti. A tale riguardo, non cederemo al facile inganno della reductio ad Hitlerum, quella per cui ogni disagio si trasforma, nel mentre di pochi scambi di improperi, in una sorta di esercizio di comparazione al Terzo Reich. E tuttavia rimane una radice profonda, quella per cui i negazionismi – quindi non solo quello della Shoah – coltivano una radice comune, ovvero la rimozione dei due principi interagenti nell’uomo contemporaneo, quello di realtà e di responsabilità. Così avviene, oggi, per coloro che rifiutano le vaccinazioni. Non sono falangi del nazismo. Semmai, nel nome della loro presunta autonomia, stanno mettendo a rischio il futuro di intere collettività democratiche. Cosa c’entra tutto ciò con le parole precedenti? Molto. Poiché la memoria non è mai un’icona bensì un tessuto cicatriziale. Serve per davvero non se fa piangere bensì se riesce a far riflettere sulle miserie del presente. L’impegno più difficile, in fondo, non è mai guardarsi allo specchio di ciò che è ma a quello del passato e, soprattutto, a quello (deformante) dei tempi a venire.

Claudio Vercelli