Pardo, un medico al servizio d’Israele
Cento anni fa nasceva a Genova Giorgio Leone Pardo. Figlio di genitori veneziani, trasferiti a Genova per via della professione del padre, professore di oftalmologia all’Università di Genova. Frequentò con discreto successo le scuole fino alla 2° liceo classico. A quel punto il dramma: era il settembre del 1938 e il giovane Pardo fu cacciato dalla scuola per le disposizioni contenute nelle leggi razziali del 5 settembre 1938. Tanti anni di studio avrebbero dovuto essere gettati alle ortiche nell’intento del governo fascista. Ma gli Ebrei non si piegarono: con rapida mobilitazione la Comunità ebraica di Genova (come le comunità di altre città) riunirono i docenti ebrei, cacciati anch’essi dalle scuole di ogni ordine e grado e organizzarono una scuola (alternativa a quella di Stato) per i ragazzi ebrei. Il risultato fu che, superate le difficoltà logistiche, i giovani ebrei ebbero a disposizione una didattica di prim’ordine che li portò a essere preparatissimi per sostenere l’esame di licenza liceale. Giunto il momento fatidico i giovani ebrei furono ammessi a sostenere l’esame, ma segregati nei corridoi fuori dalle aule, in ottemperanza alla legislazione razziale.
Superato brillantemente l’esame finale del liceo sorgeva per Giorgio il problema del futuro. Impossibile la frequenza all’Università per i divieti della legislazione razziale, il padre, fervente patriota, escludeva per sé e per la famiglia l’emigrazione. Che fare dunque? Nell’imminenza della guerra il problema alimentare cominciava a manifestarsi. Le derrate gradualmente venivano poste sotto il controllo governativo e razionate. Gli immobili agricoli diventavano sempre più appetibili e interessanti soprattutto a causa della capacità che avevano di offrire ristoro alla fame. In queste condizioni il padre investì i suoi risparmi nell’acquisto di due cascine e suggerì al figlio di conseguire (con un corso di studio da privatista) il diploma di Geometra. L’idea di passare la vita tra i campi non era all’apice delle aspirazioni del giovane Pardo, ma fece di necessità virtù e con l’impegno di un anno di studio conseguì brillantemente il titolo di Geometra. Dopo di ché l’utilizzo (clandestino) del titolo conseguito si dimostrò più problematico del previsto. Si recò nelle campagne nell’entroterra di Genova per fare pratica con l’aiuto di qualche conoscente, ma la professione non si sviluppò. Intanto l’Italia entrava nella Guerra Mondiale e nel 1941 il padre soccombeva ancora giovane ad un’operazione chirurgica. Il giovane Pardo a quel punto divenne l’unico sostegno della madre rimasta precocemente vedova. La sorella, sposata e impegnata con la sua famiglia, partecipava affettivamente alla vita della famiglia Pardo dividendosi tra la famiglia di origine e la nuova famiglia che si era formata. Il “geometra Pardo” rimase così in balìa degli eventi che peggioravano sempre più, cercando di essere di supporto alla madre, ma l’avanzare della guerra rendeva tutto sempre più difficile e la vita, tra difficoltà belliche e aggravamento delle norme persecutorie, diveniva sempre più ardua.
Tuttavia la persecuzione e i disagi bellici non scalfirono l’idealismo del giovane Giorgio, che, a dispetto dell’imperante ed imposta ideologia fascista era, in cuor suo, profondamente e concretamente socialista. E il destino mise alla prova i suoi convincimenti: nel volgere di pochi mesi vennero a mancare alcuni cugini discendenti da rami collaterali della famiglia Pardo. Tutti senza discendenti e tutti decisamente benestanti. Essendo lui l’unico cugino maschio di una generazione più avanzata, con decisioni similari lo nominarono erede di cospicui patrimoni. Ma queste fortune ereditate non scalfirono i suoi convincimenti etico-politici: un’importante frazione di questi patrimoni era costituita da campagne nel Veneto. Giorgio Pardo rifiutò di tenere per sé le campagne incluse nei patrimoni e le regalò ai contadini che le lavoravano. Condivise con la sorella (cui non era toccato nulla, “perché non portava avanti il nome”), cospicue frazioni dell’eredità.
Verso la fine del 1942 cominciarono, su diverse città italiane, pesanti bombardamenti aerei inglesi: la casa dove abitava a Genova venne colpita e divenne inabitabile. Fu costretto a rifugiarsi a Padova, che in quel momento era indenne dai bombardamenti, in una casa che aveva ereditato da poco. Ma l’ozio forzato non era sopportabile. Ottenuto il passaporto, con un abile raid nei meandri della burocrazia fascista (che anni dopo raccontava con una verve spiritosa) ottenne pure il regolare visto d’ingresso nella Confederazione Elvetica. Nella primavera del 1943 Pardo entrava legalmente, in treno, in Svizzera. Un vero miracolo e un gioco di abilità che gli consentì di emigrare senza violare le leggi di nessuno dei due Paesi. In Svizzera si iscrisse alla Facoltà di Medicina dell’Università di Losanna ed iniziò gli studi per quella carriera cui aspirava da tempo. Da casa poteva ottenere legalmente piccoli, ma regolari versamenti di denaro che gli consentivano di mantenersi agli studi. Tutto continuò abbastanza serenamente, soltanto per pochi mesi. L’8 settembre del 1943 l’Italia precipitò nell’inferno dell’occupazione nazista. Senza finanziamenti da casa (con l’angoscia per la sorte della sua famiglia rimasta in Italia) divenne profugo, ma poté proseguire gli studi. Associazioni di beneficenza svizzere (ebraiche e non) lo aiutarono a sopravvivere. Ottenne anche quelli che venivano chiamati “prestiti d’onore” cioè prestiti senza alcuna garanzia bancaria con l’impegno, appunto “di onore”, di restituire quanto ricevuto, a guerra finita. D’estate, quando non c’erano lezioni, doveva lavorare per finanziare il suo mantenimento: veniva inviato nelle campagne a raccogliere frutta presso aziende agricole della piana della Svizzera tedesca. Non era molto abituato ai lavori agricoli, ma non aveva scelta. Finalmente nel 1945 la Liberazione: poté tornare a Genova dove terminò gli studi di medicina.
Nel frattempo, prima ancora di aver terminato gli studi, nella Palestina mandataria venne fondato lo Stato di Israele, immediatamente aggredito dagli eserciti di sette paesi arabi. La generosità del suo carattere si manifestò ancora una volta: voleva partire per contribuire alla sopravvivenza di quello che dopo due millenni di fughe e persecuzioni, appariva un sogno fantastico divenuto improvvisamente una realtà quasi incredibile. Furono giorni e settimane di ansie e discussioni con la famiglia che non condivideva le sue certezze. Lo Stato Ebraico era un bel sogno, una millenaria aspirazione, ma alla famiglia che, era appena fortunosamente sfuggita al dramma della Shoah, appariva una chimera di realizzazione assai difficile ed aleatoria. La madre rimasta vedova da pochi anni, uscita faticosamente dalle traversie della guerra, sperava nell’appoggio del figlio. L’idea che interrompesse gli studi iniziati con tante difficoltà dovute alla persecuzione fascista, angustiava tutta la famiglia.
Alla fine dopo lunghe settimane di discussioni il giovane Pardo fu convinto che il nuovo Stato avrebbe tratto più vantaggio da un medico compiutamente formato che da un fante poco atletico e senza alcuna istruzione militare: si convinse a rinviare l’aliyah a dopo la laurea. E così emigrò agli inizi del 1950. In Italia la ripresa, cinque anni dopo la fine della guerra, aveva portato benessere e attività economica frenetica come mai si era visto prima. In Israele invece la situazione era molto arretrata. Gli inglesi, partiti da appena due anni, avevano lasciato il Paese in una situazione coloniale di degrado. A fronte di questo, lo Stato affrontava la difficile e dolorosa operazione di difesa dall’assalto di sette stati Arabi coalizzati e l’immigrazione, finalmente liberalizzata imponeva problemi enormi e mai visti. Da circa 600 000 abitanti ebrei del 1948, grazie all’immigrazione, la popolazione crebbe, in un paio d’anni, a poco meno di 3 milioni di ebrei. Occorrevano servizi che dovevano essere creati ex novo, con soluzioni mai sperimentate in precedenza e con fantasia ed impegno eccezionali. In questo quadro Giorgio Pardo si inserì con un coraggio ed una tenacia senza pari. Lasciava, nel paese di origine, una situazione di agi e benessere e si inserì con entusiasmo ed impegno nello sforzo costruttivo del Paese. Era laureato in medicina e (forse più la famiglia che lui) sperava potesse ripetere la carriera del padre, professore universitario. Ebbe qualche contatto con il professor Bernardo Zondek, dell’Università di Gerusalemme, l’inventore del primo test di gravidanza e di studi fondamentali nel campo della ginecologia, ma poi preferì passare alla medicina pratica. L’assistenza dei pazienti e il contatto con i malati soddisfacevano la sua generosità più che l’impegno di laboratorio su provette e tessuti umani. Decise quindi di dedicarsi alla cura dei pazienti delle ma’abarot (campi di accoglienza per nuovi migranti). Rosh A’ayin, a est di Petach Tiqwa, fu la prima sede di lavoro. Questa località, alle fonti del fiume Yarkon, fu sede di una delle più importanti ma’abarot degli anni ‘50 dello scorso secolo. È impressionante, il confronto tra gli anni ‘50 e la situazione attuale. Allora era un campo di nuovi immigrati (decine di migliaia che arrivavano soprattutto dallo Yemen, ma anche tantissimi da altri paesi arabi e dall’Europa) alloggiati semplicemente sotto tende, mentre oggi è una città dai grandi edifici e infrastrutture.
Nel frattempo Giorgio Pardo si sposò con Anita Pisek, una giovane che aveva alle spalle una storia da romanzo. Nata in Polonia, fuggita con la famiglia verso la Siberia, era arrivata nell’allora Palestina mandataria attraverso l’Iran. Dalla Palestina era venuta a studiare agraria a Milano e di lì era tornata in patria.
Nel 1951 nacque il figlio Kariel. Presto la giovane famiglia si trasferì a Tiberiade. Anche qui Pardo si dedicò all’assistenza dei pazienti, con la specializzazione in ginecologia. L’atmosfera a Tiberiade era difficile. La città cresceva, il bisogno di assistenza medica era elevato, ma il clima assai duro: a 200 metri sotto il livello del mare la vita, soprattutto di estate, era molto faticosa. I condizionatori d’aria, oggi una regola, non erano ancora disponibili per l’uso del grande pubblico. Eppure vi rimase alcuni anni con la moglie e il figlioletto. Dopo trovò un impiego all’ospedale Kaplan di Rehovot. La famiglia cresceva: qui nacquero altri due figli, Eldad e Ilan. Rimase a Rehovot diversi anni e data la giovane età partecipò come capitàno medico a tutte le varie guerre, combattute da Israele: Campagna del Sinai del 1956, Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Guerra di attrito, sul Canale di Suez tra il 1967 e il 1970 e, infine , la Guerra del Kippur nel 1973. Negli anni ‘60 riuscì a trasferirsi a Gerusalemme. Qui trovò lavoro all’ Ospedale Sharé’ Zedek, il nosocomio dei pazienti più religiosi. Anche qui l’aspetto più importante dei suoi interessi era il lato umano, l’assistenza dei malati, più che la ricerca scientifica che si svolgeva soprattutto all’ Ospedale Hadassa. A Gerusalemme nacque il figlio più giovane, Amichai. In questa città Pardo trovò una Comunità Italiana assai importante e ben strutturata. Il Tempio Italiano di Gerusalemme (con annesso il Museo) utilizza gli arredi portati dall’antica sinagoga di Conegliano Veneto, dove la famiglia (il padre e i nonni di Giorgio) andava in villeggiatura alla fine dell’Ottocento. Nella sua professione di ginecologo rifiutò sempre di praticare aborti a scopo anticoncezionale e si dedicò invece molto intensamente a curare le varie cause di infertilità tra le sue pazienti. Raccontava con molto spirito ed ironia, che gli capitava di incontrare sue ex pazienti che gli mostravano grate e orgogliose un figlio dicendogli “dr Pardo questo figlio è…tuo!”
Con il passare degli anni l’impegno dedicato alle scienze mediche, diminuì di intensità per motivi di età, ma questo non lo spinse verso l’ozio, anzi. Creò la sezione della Società Dante Alighieri e ne divenne presidente per molti anni. Fu sempre molto attivo nell’inventare e promuovere iniziative culturali italiane cui partecipavano anche cittadini al di fuori della Comunità Italiana di Gerusalemme e la sua attività venne riconosciuta dall’Italia che lo nominò Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia. La sua attività di promozione della cultura italiana fu piena di immaginazione ed instancabile. Quella cultura classica che aveva acquisito da giovane a dispetto delle leggi razziste che lo avevano allontanato dalla scuola, riemergeva con piena consapevolezza nella maturità. Ma questo impegno anche se intenso non gli bastava: decise di tornare a studiare.
In tre anni conseguì il Master of Arts presso l’Università Ebraica di Gerusalemme (Gruppo di Studio sulla Storia del Popolo Ebraico), concluso con una tesi su “Soluzioni contro l’infertilità nell’antico Medio Oriente e nella Bibbia”.
La Comunità italiana di Gerusalemme gravitava intorno al Tempio di Rehov Hillel e Pardo ne divenne un membro di spicco.
Intanto la famiglia cresceva: quei 4 figli che avevano ricostituito la consistenza dell’antico nucleo familiare di Venezia diedero origine ad una famiglia importante. Oggi i Pardo di Israele sono circa una trentina, impegnati nei campi più diversi: diversi i rappresentanti della professione medica, ma anche molti altri settori della cultura sono ben presenti tra i discendenti di Giorgio Pardo. Il sogno di Giorgio di ricostituire l’antica famiglia di Venezia si è realizzato e addirittura moltiplicato.
Roberto Jona