Idolatria della domanda
e idolatria della risposta

Che cos’è e come si recepisce un racconto? Un racconto è un’esperienza di condivisione, e un bisogno di liberare energie represse, un racconto nasconde sempre in sé piccoli e ingombranti segreti dell’anima. Ma più avanza l’era di Facebook più si perde la capacità di ascolto.
Siamo tutti pensatori, siamo tutti giudici, abbiamo tutti una risposta per ogni quesito. Anzi, i quesiti stanno scomparendo, si rischia che rimangano solo le risposte, immotivate, in sospensione. Anche risposte al silenzio. Interrogarsi sembra diventato superfluo. Si va dritti verso la soluzione di un problema che non è mai stato posto.
Capita, dunque, che tu racconti una storia, e ti venga sparata addosso una sentenza. Non ci si accontenta del proprio ruolo di fruitori e testimoni, non è appagante il semplice apprendere l’esperienza altrui, si sente invece di dover emettere un verdetto, il verdetto. E si può trattare di un consiglio, o di una raccomandazione, o di una censura. Si ricade così nel vizio assurdo della Verità maiuscola, come se ciascuno ne fosse proprietario unico, e tutti gli altri poveri disgraziati con in mano una misera imitazione, un errore, il solito fake.
Tutti hanno una ricetta pronta da proporre. Tutti hanno la soluzione giusta. A pochi capita di concepire che il racconto dell’esperienza ha solo bisogno di farsi accogliere, di farsi ascoltare, di condividere un magone e metterlo in libertà.
Pochi dicono di capire. Forse sono quelli che le hanno già provate tutte. Hanno provato a reagire in gioventù a forza di schiaffi e pugni. Hanno in seguito provato a spiegare, forti della ragione. Hanno anche ribattuto con asprezza o con l’insulto. E alla fine si sono arresi di fronte all’inestirpabilità universale del pregiudizio e dell’ignoranza.
Di fronte all’antisemitismo c’è ben poco da insegnare. C’è sempre molto da imparare, ma ben poco da insegnare. E fra le due azioni c’è una bella differenza, se si ha la bontà di coglierla.
Ci vuole una certa dose di umiltà a confrontarsi con la vita, specie quando la vita è quella degli altri. Ma c’è sempre chi, fortunato, vive di certezze, e dalla riva del fiume, anziché disporsi a una pudica ricezione, si erge a giudice di una vita altrui che gli si presenta davanti agli occhi, e si mostra prodigo di consigli su come vivere e come morire.
Difficile concepire che siamo granelli di sabbia in balia di un vento capriccioso, spinti in direzioni tutte diverse, determinati dalla nostra storia, dalle nostre famiglie, dalla nostra cultura, dal nostro ambiente, dal nostro carattere, dalle situazioni diverse in cui diversamente veniamo coinvolti, e dal nostro mondo di emozioni. E siamo esseri umani (e qualche volta anche no) che abbiamo il diritto, ciascuno di noi, di essere ciò che scegliamo di essere, o anche no. Non c’è il giusto e lo sbagliato nel campo delle scelte che ci riguardano personalmente. Che cosa sia giusto, in relazione a noi stessi, lo decidiamo noi – ciascuno per sé – senza che giudici e censori ci suggeriscano come vivere la nostra vita.
L’intolleranza è una brutta bestia, comunque si manifesti.
Vige un principio, in critica letteraria. Il giudizio su un testo non può basarsi su quanto nel testo non c’è, ma solo su quanto il testo dice e presenta. Il mondo del testo va accettato per quello che è, e va percepito per quel che il testo stesso ti offre, non per ciò che, a tuo giudizio, gli manca. È il fondamentale principio del rispetto del testo. E dell’uomo.
Tornano alla mente gli idoli del salmista, che non sanno ascoltare, ‘oznaim laem velò ishmau’. Fra l’idolatria della domanda e l’idolatria della risposta, preferisco di gran lunga la prima.

Dario Calimani

(27 luglio 2021)