Periscopio – Il Paradiso
al tempo di Dante

Dopo avere svolto, nei precedenti interventi, alcune considerazioni preliminari sul tema generale (come abbiamo spiegato, diversamente interpretabile) del rapporto tra Dante e gli ebrei, è arrivato il momento di entrare “in medias res”, ossia di analizzare quei passaggi della Divina Commedia dai quali si può evincere la visione del poeta riguardo alla funzione storica e spirituale del popolo ebraico, nel suo complesso, nonché nei confronti di alcuni suoi specifici esponenti.
I primi versi di cui dobbiamo occuparci sono quelli, molto famosi (ma, come vedremo, questa è una caratteristica di tutte le pagine dantesche “de Iudaeis”, tutte celeberrime, e non è certo un caso), dedicati alla elevazione del popolo di Israele nel Paradiso, subito dopo la Passione. Tale articolo del Credo fu affermato, in una prima versione, nel Concilio Ecumenico Lateranense del 1215 (il dodicesimo Concilio ecumenico, quarto dopo lo scisma di Oriente), per essere poi ribadito e riformulato dal Concilio Ecumenico di Lione del 1274, quando Dante era un fanciullo di nove anni. Il Concilio di Lione, in particolare, convocato da papa Gregorio X, e inaugurato il 7 maggio, fu voluto anche con l’intento di promuovere una riconciliazione (poi non riuscita) con la Chiesa ortodossa (di cui fu invitata una delegazione), e tra i vari punti trattati ci furono anche diversi problemi relativi al Purgatorio, per dare soluzione ai quali fu invitato anche Tommaso d’Aquino (che però, ammalatosi durante il viaggio, morì nell’abbazia di Fossanova, il 7 marzo).
L’articolo di fede menzionato dava una risposta a una questione che da tempo coinvolgeva il dibattito teologico ecclesiastico (suscitando aspre contrapposizioni tra Chiesa di Oriente e di Occidente), e alla quale era anche direttamente collegato l’atteggiamento – più o meno ostile, benevolo o ‘neutro’ – della Chiesa nei confronti dell’ebraismo. Fermo restando che gli ebrei apparivano collettivamente colpevoli, per non avere riconosciuto il Messia, e per averlo anzi messo a morte, e che – a meno che non si fossero convertiti – non avrebbero potuto salvare la loro anima, che sorte bisognava assegnare a coloro che erano vissuti prima dell’incarnazione, e che quindi non avevano potuto conoscere la verità del Vangelo? Andavano relegati anch’essi nel Limbo, insieme a tutti gli altri uomini giusti vissuti prima dell’era volgare? O meritavano un destino migliore?
Il problema, evidentemente, era direttamente collegato al valore attribuito alle Sacre Scritture del cd. “Antico Testamento”, che avrebbero preparato e ‘annunciato’ il “Nuovo”. Il monaco Marcione, com’è noto, violentemente antisemita, ne aveva proposto l’integrale rifiuto, ma la sua teoria fu bollata come eretica, e la Bibbia ebraica entrò per sempre nel Canone (sia pure non nell’edizione originale, ma nelle due versioni greca [i Septuaginta] e, soprattutto, latina [la Vulgata di San Girolamo]), e “degradata” a mera praeparatio evangelica. Elevare al Paradiso gli antichi ebrei, che avevano conosciuto e venerato la Bibbia, ma non il Vangelo, pareva a molti uomini di Chiesa un onore eccessivo nei confronti di quel popolo controverso, ma lasciarli nel Limbo appariva ad altri irriguardoso della funzione di preparazione e annunzio svolta dall’antico Israele. Dopo molte e accese discussioni, i vescovi fecero prevalere la versione “estensiva”, aprendo al popolo di Israele pre-cristiano, subito dopo la morte del Messia, le porte del Paradiso (con una certa forzatura teologica, dal momento che l’articolo non trovava nessun appoggio nelle Sacre Scritture, ma solo nel Vangelo apocrifo di Nicodemo).
È appena il caso di dire che questo ‘salvataggio’ del popolo di Israele, ai nostri occhi, non assume certo un valore ‘filoebraico’, dal momento che fissa per sempre una netta distinzione tra il popolo israelita vissuto prima dell’era volgare (considerato ‘buono’) e quello venuto dopo (‘cattivo’, o, quanto meno, ottenebrato, o “duro di comprendonio”). E ancora oggi il dibattito interno alla Chiesa Cattolica sulla possibilità di una salvezza del popolo di Israele unicamente in forza della fedeltà alla Torah, a prescindere dalla sua conversione, si scontra con la verità di fede del Concilio di Lione.
Ma queste considerazioni possono essere fatte ai giorni nostri, e non avrebbero potuto essere comprese ai tempi in cui fu scritta la Commedia. Occorre sempre distinguere, ovviamente, tra il Dante teologo e il Dante poeta. Il primo resta integralmente inserito nella cultura medievale del suo tempo, e, anche se spesso mostra notevoli margini di autonomia di giudizio (basti pensare all’implacabile odio verso il Pontefice Bonifacio VIII), non si discosta mai dal principio “nulla salus extra Ecclesiam” e dalla sua ferma visione teocentrica e trinitaria (la quale permeava di sé la sua intera concezione dell’universo, anche a livello fisico, geografico e astronomico). In quanto tale, la sua visione è lontanissima dalle nostre, e anche – se non dalla dogmatica – dall’odierno dibattito ecclesiale. Solo come poeta egli è, e resterà per sempre, eterno.
Vedremo, la settimana prossima, e anche nella successiva, il modo in cui Dante rappresenta, nel quarto Canto, la trasmigrazione delle anime dei Padri di Israele, così come immagina che gli venga descritta da Virgilio (“testimone oculare” dell’evento). Sul piano teologico, i suoi versi non contengono alcuna novità, e, tutto sommato, soprattutto in questa sede, non ci interessano particolarmente. Ma sul piano poetico raggiungono livelli di altissima capacità espressiva, oltre a dimostrare una capacità di sintesi davvero mirabile, segno di una profonda conoscenza della storia d’Israele.

Francesco Lucrezi