Memoria di un esodo

Chi condivide una concezione razionale della storia di solito ritiene che ricordare un’ingiustizia, una violenza sia il punto di partenza per superarla. Ma non sempre è così. Ci sono delle ingiustizie che non possono essere risarcite, esse resteranno tali per sempre, hanno generato ferite non rimarginabili. Questa è almeno l’impressione che si ricava ascoltando l’audizione di David Meghnagi di fronte alla Commissione Esteri della Camera dei deputati a proposito della sorte degli ebrei nei Paesi arabi.
Ma se ciò che è avvenuto nei Paesi arabi con la cacciata, in un lasso di tempo abbastanza breve, della popolazione ebraica che vi risiedeva da centinaia di anni, non è reversibile, se gli ebrei del Nord Africa ma anche dell’Iraq, della Siria dello Yemen non hanno alcuna possibilità di far ritorno alle loro terre d’origine, né l’hanno i loro discendenti, che senso ha coltivare la memoria dell’esodo, di un’altra diaspora che si è aggiunta a tante già vissute in passato? La memoria, si dirà: conservare la memoria ha comunque un valore in sé. E’ vero, ma la memoria deve essere qualcosa di vivo, che è conservata perché parla a qualcuno, perché ha un significato al di là dell’irreversibilità degli eventi.
C’è naturalmente la memoria di chi ha subito l’ingiustizia e non può e non vuole dimenticarla, e David Meghnagi è uno di quelli, perché ha vissuto in giovane età la cacciata dalla Libia. Ma la memoria della cancellazione di comunità formate da centinaia di migliaia di persone non può essere ristretta solo a coloro che l’hanno vissuta direttamente sulla loro pelle, non può essere solo qualcosa di personale, di privato. C’è naturalmente una memoria più ampia, quella che riguarda l’intero popolo ebraico che ha visto aggiungere un altro tassello a una vicenda di esilii che dura da un tempo infinito. Ma proprio per questo l’esodo degli ebrei dai Paesi arabi rischia di essere letta, dagli ebrei stessi, come un capitolo di una storia infinita che sembra essersi interrotta solo con la fondazione dello Stato d’Israele. C’è il rischio cioè di perdere la specificità e la portata degli eventi che hanno coinvolto le comunità ebraiche dei Paesi arabi nel giro di pochissimi anni.
C’è una memoria della scomparsa delle comunità ebraiche nei Paesi arabi che non è riuscita a imporsi, a farsi riconoscere come è avvenuto per le comunità ashkenazite della Germania, della Polonia, della Lituania, dell’Ucraina. La tragedia della Shoah è stata così immane che la sua ombra ha coperto ogni altra tragedia, anche quella degli ebrei perseguitati e cacciati dai Paesi arabi, anche perché, come nota Meghnagi, la loro vicenda ha finito per essere confusa con quella del conflitto arabo-israeliano mentre ha una sua specificità che risale a ben prima della nascita del sionismo anche se il conflitto naturalmente ha pesato. E c’è anche un altro aspetto che ha influito sulla parziale rimozione di questo trauma, il peso che ha avuto nel mondo occidentale la falsa leggenda della tolleranza araba verso le altre culture, compresa quella ebraica. Quella tolleranza, se c’è stata, è stata limitata a brevissimi periodi, ed è stata ben presto sopraffatta dalla discriminazione, dalla violenza e infine dalla cacciata, come hanno messo in evidenza gli studi di Bernard Lewis e, in tempi più recenti, di Vittorio Robiati Bendaud, di Georges Bensoussan, anch’egli ascoltato dalla Commissione Esteri, e dello stesso Meghnagi.
Aver portato la memoria di quegli eventi davanti a una commissione parlamentare è di per sé un fatto positivo ma deve essere il punto di partenza per una più diffusa conoscenza di quegli eventi e del loro significato.

Valentino Baldacci