Trafficanti di valori
Non è che l’età nostra sia maggiormente deprecabile di quelle trascorse (plausibilmente, neanche di quelle a venire). Ogni epoca porta con sé successi e sventure, opportunità e vincoli, glorie e polveri come anche onori e infamie. Va da sé, tuttavia, che ognuno di noi si soffermi di più e meglio sul tempo che sta vivendo, cogliendone perlopiù le criticità. In particolare modo se di esse ne fa diretta esperienza. La capacità di relativizzarne l’impatto e, quindi, di contestualizzarlo, aiuta comunque a cogliere meglio le dimensioni di grandezza dei problemi che ci accompagnano. Al netto dell’esperienza individuale. Per non essere travolti dall’impeto di quest’ultima. Posta questa premessa, rimane poi il resto. In una società che si celebra come, al medesimo modo, luogo ma anche e soprattutto tempo nel quale si è consumata la «morte delle ideologie» (parola, quest’ultima, rivestita inesorabilmente di significati e accezioni negative, soprattutto da chi non è disposto a riconosce di esserne, in qualche modo lambito, quando giudica gli altri con la ferrea logica sua propria), il rischio è che per non credere più in nulla ci si riveli disposti a credere in tutto, soprattutto se quel “tutto” si presenta sotto le sembianze di un fatto non solo oggettivo ma soprattutto indiscutibile. Molte delle relazioni sociali, prodotto dell’agire umano, vengono infatti vissute come se fossero situazioni “naturali”, ovvero inscritte in un libro della vita che si impone alle persone prescindendo dalla loro consapevole responsabilità. Quindi, dal loro stesso intervento volontario. In tale modo, il fatalismo si impossessa degli individui: se da una parte i fatti dell’esistenza si presentano come inesorabili, dall’altra le persone si sentono scaricate dell’altrimenti sgradevole sensazione di avere delle “colpe” per la propria condotta (così come, eventualmente, per il non avere fatto alcunché quando invece avrebbero potuto e dovuto agire). In fondo sono come i due piatti della medesima bilancia: un peso sta da una parte, per indicare l’impossibilità, la fatalità, l’imprevedibilità, soprattutto l’ineluttabilità, ovvero quell’insieme di idee e convincimenti che molti chiamano con il nome di «destino» (la vita, in altre parole, sarebbe solo ed esclusivamente fato, ventura e sorte); l’altro peso, simmetrico, è quello che non si contrappone al primo, semmai lo equilibra in maniera compiaciuta: se si è non solo estromessi ed espropriati dalla possibilità di cambiare qualcosa ma “non ci sono alternative” allo stato di cose esistente, per quale motivo ci si dovrebbe impegnare a fondo in altro che non sia la semplice preservazione del proprio interesse immediato? Non di meno, quando le virtù dell’etica pubblica vengono sostituite da una visione meramente utilitarista, una concezione delle relazioni e degli scambi che li riconduce a pura performance, un individualismo fondato sul solo possesso di cose (e in alcuni casi anche di persone), la toppa che molti mettono al buco delle proprie incoerenze – delle quali a volte un poco si vergognano, altre volte no – è quella di una morale miseranda, un galateo straccione, che si trasforma da subito in prescrizione moralista. È tale la condizione per cui si manifesta la «tendenza a dare prevalente o esclusiva importanza a considerazioni morali, spesso astratte e preconcette, nel giudizio su persone e fatti della vita, della storia, dell’arte; atteggiamento di rigida e talora eccessivamente conformistica difesa dei principî della morale comune» (vocabolario Treccani online). Il moralismo non difende mai dei contenuti effettivi ma esclusivamente delle forme; non si alimenta di principi, come tali sottoposti alla verifica dei tempi e dei fatti, bensì di una ipocrisia della circostanza. Soprattutto, non è mai rivolto a chi lo manifesta ma a coloro che lo circondano. Infatti, è una sorta di pseudo-interpretazione degli eventi nella quale, con ossessiva e maniacale determinazione, si imputano a sprone battuto “colpe” solo ed esclusivamente agli “altri”. Si tratta di una pratica ai limiti dell’esorcismo. Chi la fa propria, in effetti, vuole fare pendere ancora di più a suo beneficio il piatto della bilancia della propria irresponsabilità, attribuendo al resto della collettività gli eventuali danni che derivano da condotte poco o nulla avvedute. A partire da quelle sue proprie, per capirci. Il moralismo sta all’etica così come il favore sta alla giustizia: due capovolgimenti di senso, fatti invece passare per la concretizzazione di un principio collettivo. Il moralismo è un lievito dei tempi confusi, quando le cose cambiano ma i molti non riescono a farsene una qualche ragione che non si identifichi con quella terribile miscela che somma in se stessa paure, rancori e aggressività, nella logica della contrapposizione di petto a qualsiasi cosa – come a qualunque persona – si frapponga tra sé e il proprio, immediato calcolo d’interesse. Il secondo, beninteso, contrabbandato a sua volta in quanto vera, autentica ed esclusiva cornice del più autentico agire umano. Una tale disposizione d’animo è quasi sempre il corredo di una visione del mondo ferocemente antisociale: esisto nella misura in cui rifiuto qualsivoglia condivisione e cooperazione con gli altri da me. Il moralismo, spesso ammantato di falsa scientificità, ossia alla perenne ricerca di auto-giustificazioni fondate non solo sulla fatalità degli eventi e degli ordinamenti umani ma su di una presunta oggettività dei propri convincimenti, celebra in maniera tautologica tutto ciò che esiste: è infatti giusto, in quanto rispondente ad una qualche morale, ciò che si dà come fatto, punto e basta. In tale modo, però, nega a priori la qualità, per nulla neutra, dei rapporti umani, posto che in ognuno di essi si cela sempre quella condizione di mutevole asimmetria di ruoli e capacità che conosciamo con il nome di potere. Ripetizione, decontestualizzazione e banalizzazione costituiscono la cornice di un tale modo di intendere le cose. Ognuna di esse, infatti, crea un’aura di legittimità alla stessa bugia, quando viene ossessivamente propalata nel tempo. A citare un autore del secolo trascorso, Antonio Gramsci, si ha come l’impressione di una surreale comicità in chi si prende sul serio – chiedendo al suo “pubblico” di fare altrettanto – dal momento che confonde l’analisi e la riflessione su ciò che chiamiamo con il nome di «realtà» con la sua apologia totalmente acritica. Laddove si contrabbanda la finzione con la concretezza dei fatti, si capovolge in senso degli eventi, si torce l’etica in moralismo, si «opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto il cervello. Machiavelli diventa così Stenterello». È allora, tra le altre cose, che i nuovi schiavisti possono presentarsi sotto le mentite spoglie di emancipatori. Trafficanti di valori, come nel caso di quanti lamentano la mancanza di manodopera, nel mentre si viene a scoprire che le paghe che vengono offerte sono da fame. Ed è solo uno dei diversi esempi che si potrebbero fare, al riguardo.
Claudio Vercelli
(1 agosto 2021)