Dal Darfur a Tel Aviv, il sogno olimpico di Jamal
“Se oggi o domani mi chiedessero di rappresentare Israele, direi subito di sì. Mi sento israeliano e vorrei restituire qualcosa al paese che mi ha accolto”. Dopo aver ottenuto nel palcoscenico più importante, le Olimpiadi di Tokyo, il proprio record personale sui 5000 metri, Jamal Abdelmaji Eisa Mohammed racconta il suo sogno di poter un giorno correre con i colori del paese in cui si è ricostruito una vita. Per il momento a Tokyo la maglia che ha indossato è stata quella della squadra olimpica dei rifugiati. Ci è arrivato grazie agli allenamenti a Tel Aviv e all’essersi guadagnato con i risultati una borsa di studio del Comitato olimpico internazionale. “Correre a Tokyo è stato davvero divertente, mi sono goduto ogni momento in cui ho gareggiato ed è stata un’esperienza straordinaria”, le sue parole all’emittente israeliana Kan. Su 37 corridori in gara è arrivato ventitreesimo, abbassando di ben 12 secondi il proprio personale. È soddisfatto, ma nelle gambe si sente tempi migliori. “È come se non avessi ancora veramente iniziato. So che parlare in questo modo non è saggio, ma è così che mi sento. Avrei potuto correre meglio di quanto ho fatto, ero solo stupito dalla concorrenza”, spiega l’atleta, che dimostra una certa fiducia nei suoi mezzi. Lui che all’atletica ci è arrivato per caso.
La sua storia inizia nel Darfur, regione del Sudan Occidentale. Quando nel 2003 scoppia il conflitto, alcuni miliziani entrano nel suo villaggio e uccidono 97 persone tra cui il padre. Jamal, che ha dieci anni, assieme ai tre fratelli e alla madre scappa. Per anni cerca di lasciare il paese, rimanendo schiacciato tra la guerra e la violenza dei trafficanti di esseri umani. Nel 2010 riesce finalmente nel suo intento. Inizialmente gli viene promesso un biglietto per il Canada. Lui, racconterà in un’intervista, non sa neanche dove sia quel paese, l’importante è partire. Non sa neanche dove sia Israele, ma è lì che lo dirigono in realtà i trafficanti. Paga 200 dollari e a piedi attraversa il Sinai. Dopo tre giorni, lo trovano le autorità israeliane e per alcune settimane rimane nella struttura detentiva nel Negev di Ketziot. “Non capivo esattamente dove fossi e cosa ci facessi lì. – ricorderà in un’intervista a Yedioth Ahronot – Poi un giorno siamo stati mandati a Tel Aviv. Non sapevo neppure come uscire dall’autobus. Sono rimasto sopra per un paio d’ore, poi è arrivato un altro autobus e ho seguito fuori alcune persone”. La prima notte a Tel Aviv dorme in un parco pubblico vicino alla stazione centrale. “Dopo un giorno un ragazzo sudanese è venuto da me e per solidarietà con la nostra gente mi ha invitato a vivere con lui. Abbiamo condiviso le spese del monolocale. Eravamo in otto. Nel frattempo, ho ricevuto l’offerta di lavorare per ripulire le spiagge di Herzliya”. E così con un’occupazione in tasca, la sua vita inizia a trovare un equilibrio. “Quando ti accadono cose terribili in giovane età, cose molto più difficili di quelle che potresti passare nel resto della tua, allora sai che ce l’hai fatta. Superare gli ostacoli diventa più semplice. Sai che puoi farlo”, la sua testimonianza ad Haaretz. La svolta sportiva arriva in modo assolutamente fortuito. Per divertirsi, Jamal gioca a calcio con altri ragazzi e uno dei suoi amici gli suggerisce di darsi all’atletica. “Mi disse: puoi correre dietro alla palla per tre o quattro ore, ma per te sarebbe meglio iniziare a correre per la squadra Hasimta Athletics”. Si tratta di una società sportiva del sud di Tel Aviv che offre a ragazze e ragazzi che provengono da realtà disagiate la possibilità di impegnarsi nell’atletica. “Crediamo nella capacità di un programma di atletica sociale per migliorare il corso della vita di ragazze e ragazzi, e aiutarli a diventare studenti migliori, persone migliori e grandi atleti”, si legge sul sito dell’associazione. Jamal diviene presto uno di questi ragazzi e in lui l’allenatore Yuval Carmi vede del potenziale. Lo allena per i 5000 e 10000 e iniziano ad arrivare risultati promettenti.
“Questo club significa molto per me, sono come la mia famiglia. Hanno fatto di tutto per aiutarmi a realizzare il mio sogno”, afferma il fondista, oggi 26enne, al sito World Athletics. Una dei volontari di Hasimta Athletics, Hili Avinoam, lo ha praticamente adottato. Sta da lei e in cambio fa il custode del condominio. “Guardatelo: ha ricevuto i limoni più aspri che la vita possa offrire e ne ha fatto una limonata. – il commento ad Haaretz di Avinoam – Inoltre, penso che siamo davvero fortunate ad averlo con noi. Parlando per me, ha reso la mia famiglia più grande e migliore: con le mie figlie gioca a giochi da tavolo e a calcio”. “Lui celebra le festività ebraiche con noi e noi celebriamo il Ramadan con lui. – il racconto sempre di Avinoam – Stare con lui è molto divertente: è sempre ottimista e gioioso. Gli voglio molto bene, le mie figlie e i miei amici lo adorano e si è legato ai miei genitori come se fossero i suoi nonni”. In pista è molto concentrato e i risultati arrivano, tanto che il team dei rifugiati lo seleziona e lo porta prima a competere in Danimarca e poi ai mondiali di Doha. Fino alla realizzazione del sogno, la chiamata per i Giochi di Tokyo. “Vorrei che mio padre mi vedesse partecipare alle Olimpiadi oggi – racconta alla radio israeliana Jamal – anche se mia madre non sa nemmeno cosa siano”. A lei e a tutta la famiglia, il fondista continua a mandare ogni mese i soldi. Non li ha dimenticati, sottolinea. Ma continua a sostenerli da lontano, costruendosi un futuro grazie a quelle gambe che lo hanno portato in salvo fino in Israele. Un paese che spera un giorno di poter rappresentare.
dr