Dodici anni di oblio

Il grande compositore tedesco Richard Strauss, dopo una iniziale e mai convinta adesione alla Reichsmusikkammer, ne prese le distanze; nel 1938 sua nuora ebrea Alice fu posta agli arresti domiciliari presso il cottage bavarese del maestro a Garmisch-Partenkirchen, Strauss mosse le sue conoscenze berlinesi per garantirne l’incolumità ma qualche anno dopo nulla poté per far rilasciare la nonna ebrea di Alice deportata a Theresienstadt (i genitori di Alice erano al sicuro in Svizzera).
Nell’aprile 1945 le truppe statunitensi si recarono presso il suo cottage di Garmisch; una fonte storica riporta che i militari americani posero in stato di arresto Strauss mentre un’altra fonte riferisce che gli stessi confiscarono il cottage per installarsi come presidio, ordinando lo sgombero degli inquilini.
In entrambe le versioni, i militari erano palesemente ignari che si trattasse del cottage del Maestro.
Ormai sull’uscio di casa, Strauss si presentò al tenente statunitense Milton Weiss qualificandosi come l’autore di Der Rosenkavalier e Salomè; a quel punto il tenente Weiss – musicista nella vita civile – lo riconobbe salutandolo con grande deferenza, fece altresì installare un cartello all’ingresso del cottage in modo tale che il Maestro non fosse ulteriormente disturbato.
La seconda fonte riferisce tuttavia che il tenente Weiss, annotando le generalità degli inquilini del cottage che guadagnavano l’uscita, mentre scriveva il nome di tal signore distinto con i baffi, un borsalino in testa con un soprabito e una valigia in mano, gli disse con sorriso sornione “ma guarda un po’, lei si chiama come il Richard Strauss del quale ascoltai la prima della sua opera Elettra nel 1932 al Metropolitan di New York!”; Strauss gli rispose pacato “sono io”.
Il tenente rimase dapprima incredulo e confuso ma poi, tornando nell’appartamento e notando pianoforte, partiture, onorificenze e quaderni musicali dappertutto, realizzò che si trovava proprio dinanzi al grande Strauss; in breve, cottage non più confiscato e picchetto d’onore per il Maestro.
A Guerra ormai finita, non di rado si verificarono incontri inattesi tra truppe Alleate e cittadini tedeschi o austriaci, episodi di autentica caccia alle streghe, nervi tesi sino al parossismo.
Il 15 settembre 1945 a Mittersill (Austria) il compositore Anton Webern, mentre fumava un sigaro poco lontano da casa, fu ucciso dai colpi di arma da fuoco del soldato statunitense Raymond Norwood Bell che presidiava la zona per il coprifuoco; Bell, dopo avergli intimato di fermarsi, sparò a Webern che spaventato rientrava a casa ma le indagini chiarirono che non era ancora entrato in vigore il coprifuoco (nel 1955 Bell, devastato dal rimorso, si lasciò morire in preda all’alcolismo).
Nel febbraio 1945 il giovane Karlheinz Stockhausen – coscritto a fine guerra in qualità di barelliere – incontrò per l’ultima volta suo padre Simon durante una licenza dal fronte orientale, questi gli disse: “Non tornerò. Abbi cura delle tue cose”; Simon non tornò più, un commilitone riferì a Karlheinz di aver visto suo padre ferito durante i combattimenti, presumibilmente rimase ucciso in Ungheria.
Una settimana fa ero in Israele per incontrare musicisti sopravvissuti, una di essi – Hilde Zimche Gruenbaum (foto), copista dell’orchestra femminile di Birkenau – vive presso il kibbutz Netser Sereni; l’amico e regista israeliano Gady Castel mi spiegava che originariamente il kibbutz si chiamava Buchenwald dato che molti suoi fondatori provenivano dal famigerato Lager presso Weimar.
Nel 1975, presso il kibbutz Givat Chaim, ex deportati fondarono la Beit Theresienstadt dotata di biblioteca, archivio e centro didattico; così facendo, nomi e luoghi gradualmente si rigenerano.
Quando alla vigilia di Shabbat i membri del Chabad Lubavitch cantano La Marseillaise su testo ebraico, semplicemente la redimono, la riportano a casa (parte dell’inno francese, già utilizzato da G.B. Viotti, proviene dal Secondo Tempio); nomi come “Ravensbrück” o “Buchenwald” in testi di Lieder creati in deportazione, anziché evocare la tragedia, riescono quasi gradevoli all’orecchio.
Cantare il nome di Auschwitz – grazie al potere taumaturgico della musica – ci porta incredibilmente vicini a quella realtà tanto da correggerla; se è vero che la mente partorisce ciò che è reale, possiamo riparare ponti e travi pericolanti del pensiero umano o persino chiamare un kibbutz Buchenwald.
Sulle macerie dei grandi teatri della Germania distrutti dai bombardamenti nonché sull’ecatombe compiuta da Guerra e nazionalsocialismo, Richard Strauss scrisse: “Volge al termine il periodo più terribile della Storia umana, un regno di 12 anni fatto di bestialità, ignoranza e anti-cultura messa in atto dai più grandi criminali, durante il quale si è giocata la sorte di 2000 anni di evoluzione culturale”.
Se 12 anni di Terzo Reich hanno distrutto una bimillenaria eredità culturale in Germania, quanti anni serviranno per restituire al genere umano tesori e patrimoni universali creati sotto nazionalsocialismo e stalinismo, sprofondati in un settantennale oblio e ben lungi dall’esser pienamente recuperati?
Non c’è più tempo per rispondere; occorre unicamente agire.

Francesco Lotoro