Periscopio – Dante e il Concilio

Come abbiamo scritto mercoledì scorso, tra le terzine della Commedia dedicate al popolo ebraico un posto di primo piano occupano, certamente, quelle, del quarto canto dell’Inferno, dedicate all’ascesa in Paradiso dell’antico popolo di Israele.
Come ricordato, il Concilio di Lione del 1274, riprendendo e puntualizzando quanto già affermato la Concilio Lateranense del 1215, introdusse l’articolo di fede secondo cui, dopo la Passione, le anime dei giusti israeliti sarebbero state tutte elevate in Paradiso. Tale novità, che ai giorni nostri può apparire una semplice sottigliezza teologica, dovette invece avere, ai tempi in cui fu promulgata, un effetto dirompente, dal momento che ribaltava quella che fino ad allora era considerata una verità di fede indiscutibile, ossia il fatto che, senza l’intercessione divina (ovviamente, nella sua accezione trinitaria cristiana), nessuno può salvarsi, e che, quindi, non può accedere alla salvezza nessuno vissuto prima dell’incarnazione. Il dibattito su tale questione, riaperto dal Concilio, doveva essere ancora vivo ai tempi in cui il poeta scriveva questa parte del poema, cosicché egli non volle perdere l’occasione di interrogarsi sulla fondatezza del nuovo dogma (riguardo alla quale non si può escludere che egli stesso nutrisse qualche dubbio), approfittando della possibilità, da lui immaginata, di potere usufruire della testimonianza, com’è stato detto, di un “testimone diretto”.
Dopo avere visitato, nel terzo Canto, l’Anti-Inferno, dove sono tormentati “coloro/ che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inf. III. 35-36), e avere superato “la triste riviera d’Acheronte” (Inf. III. 78), a cui fa da guardiano il terribile “Caron dimonio” (Inf. III. 109) (scena tenebrosa e straordinaria, su cui avremo modo di tornare in seguito), Dante entra quindi, nel quarto Canto, nel primo cerchio infernale, quello del Limbo (ove, com’è noto, incontra le anime di “color che son sospesi” [Inf. II. 52], la cui sorte è infinitamente migliore di quella degli ignavi, incontrati precedentemente, anche se ci si potrebbe attendere il contrario, essendo scesi più in basso).
Virgilio spiega dunque al suo compagno di viaggio che gli spiriti che si accinge a vedere sono di coloro che non hanno commesso peccato, ma che, ciò nonostante, non potranno mai accedere alla luce del Paradiso, in quanto non ricevettero il battesimo, “ch’è porta de la fede che tu credi” (Inf. IV. 36), ma non per un volontario rifiuto, bensì per essere vissuti prima dell’incarnazione del Verbo, oppure dopo, ma presso popoli non ancora raggiunti dalla verità del Vangelo. Solo per questa mancanza, spiega il poeta, le anime (tra le quali egli stesso) sono lì confinate, costrette per l’eternità ad aspirare a raggiungere Dio, ma sapendo che ciò non potrà mai essere loro concesso (“sanza speme vivemo in disio”: Inf. IV. 42).
Dante, nell’ascoltare queste parole, è colto da “gran duol… al cor” (Inf. IV. 43), e rivolge quindi alla sua guida una domanda, forse nella speranza di potere apprendere che la via della salvezza non è preclusa per sempre al suo amato Maestro: è uscito mai qualcuno da quel luogo di eterna sospensione, senza gioia e senza dolore, segnato da un desiderio che non potrà mai essere appagato? (“Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore/… uscicci mai alcuno, o per suo merto/ o per altrui, che poi fosse beato?”: Inf. IV. 46, 49-50). Virgilio risponde di sì: è uscito qualcuno, anzi, una moltitudine di spiriti, ed egli è stato testimone oculare di questo evento prodigioso, in quanto, quando avvenne, era già ospite del limbo, anche se vi era entrato da relativamente poco tempo (“Io era novo in questo stato”: Inf. IV. 52) (per l’esattezza, da 52 anni: il poeta era morto nel 19 prima dell’era volgare, mentre la Passione sarebbe avvenuta nel 33 e.v.; un tempo non breve per una vita umana, ma comunque un piccolo frammento della lunga vita ultraterrena dello spirito di Virgilio, che, al momento del colloquio, durava esattamente da 1319 anni). Egli vide personalmente entrare “un possente,/ con segno di vittoria coronato” (Inf. IV. 53-54) nel Limbo, per condurre con sé nel Paradiso tutti coloro che, trasmettendo, attraverso le generazioni, la luce del disegno divino, avevano permesso la venuta sulla Terra del logos.
Le parole di questo testimone, ossia Virgilio, paiono appagare la curiosità teologica di Dante, confermandogli la veridicità di quanto affermato dal Concilio del 1274. Ma, soprattutto, gli offrono l’occasione di offrire una mirabile sintesi della storia dell’antico Israele, che appare distillata in sole quattro terzine. Dodici versi che rappresentano un riverente e ammirato tributo alla grandezza del popolo ebraico (sia pure, inevitabilmente, ridotto alla sola funzione di “popolo dell’annunzio”), considerato l’unico ‘vero’ discendente della creazione dell’uomo nel Gan Eden, l’unico legittimo portatore della scintilla della verità divina.
Una parabola, come vedremo, racchiusa in soli otto nomi, presentati come otto anelli di una catena d’oro, otto architravi della storia dell’umanità.

Francesco Lucrezi